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martedì 11 settembre 2012

UNA NUOVA STORIA SULLE ORIGINI DI SPEZZANO ON LINE
 
NJË STORIE E RE SIPËR ZËMET E SPIXANËS TEK INTERNET



Ad Angelo Mortati[1]a (1770 - 1817), figlio dei
miei sestavoli Francesco e  Susanna  Chiurco,
che tanto  lustro  ha  dato  alla  sua  Spezzano,
alla  cui  Via  Nazionale  spetta  il  suo   nome,
per averle fatto attraversare  il  suo  bel  paese.


  Premessa. Spezzano, nel mese di novembre del 1106 era denominato Σπετζαν o Σπετζανου, come si evince da un istrumento, stessa data, rogato in greco a Cerchiara di Calabria, con cui un certo Andrea, cognominato Σπετζανιτου, cede sacra suppellettile a tre monaci del monastero di Sant’Angelo di Battipede in cambio di vigne in agro della medesima cittadina distante in linea d’aria 22 km da Spezzano Albanese (Cfr. Francesco Trinchera, SYLLABUS GRAECARUM MEMBRANARUM, Neapoli, Typis Josephi Cataneo, MDCCCLXV, Vincenzo Ursini Editore, Catanzaro, 2000, n. LXXII, pagg. 93 e 94). Papa Onorio III, inoltre, il 7 giugno 1223 confermava la sentenza del Vescovo di San Marco a favore del L. Priore della chiesa di San Gregorio di Spaczano (Spezzano), appartenente al monastero Cassinese, per essere stato privato contro giustizia della medesima chiesa dall’Abate di Scusa (Scuse), che trae origine dalle Schiuse del fiume Crati e che oggi è una contrada non lontana dal centro abitato di Terranova da Sibari. (Cfr. Archivio di Montecassino, Aula III, caps. 2, fasc. 4, n. 34). Il nome Spezzano potrebbe discendere dal nome greco classico o, addirittura, arcaico σπιζαν, accusativo singolare di σπιζα, ης, η, fringuello e, in greco moderno, anche cardellino, canarino, oppure da σπιζιαν della stessa epoca, accusativo singolare di σπιζιας, ου, ο, piccolo sparviero e, in greco moderno, fringuello, cardellino. Ciò farebbe pensare che il luogo in epoca arcaica, durante la dominazione sibaritica, era abitato prevalentemente da queste specie di uccelli, da cui prese il nome. A 4 Km in linea d’aria dal centro abitato trovasi nell’ambito dello stesso comune il sito archeologico protostorico di Torre Mordillo, composto da un centro abitato ubicato su un pianoro a circa 400 m dalla confluenza dei fiumi Esaro e Coscile, risalente alla fase recente (finale o III) del Bronzo medio (1650 - 1550 a.C.), e da una adiacente vasta necropoli ubicata sulle sue pendici orientali. Spianato e fortificato nel III sec., rivela una continuità di vita sino all’ultimo scorcio del III sec. a.C., nonostante alcune monete di epoca successiva, di cui un asse semi-unciale databile all’87 a.C. ed un denarius suberato coniato intorno all’87 a.C., indicano la frequentazione di questo sito fino al I sec. a.C., diventando piuttosto vasto nell’età del ferro, per l’abbondante quantità di ceramica di questo periodo rinvenuta nella maggior parte delle trincee aperte nel 1967, di cui prevalendo quella del III sec. a.C., si può ragionevolmente ammettere che in questo secolo abbia raggiunto la massima espansione. In questa necropoli di età precedente alla colonizzazione greca tra il 14 marzo ed il 22 maggio 1888 vennero in luce sotto la direzione del prof. Luigi Viola 229 sepolture quasi tutte ad inumazione del tipo a fossa rettangolare con rivestimento e massicciata a copertura di pietrame {Cfr. F. Mollo - R. Smurra, s.v. Torre del Mordillo, BTCGI XXI, Pisa-Roma-Napoli 2012, pp. 66-80; pp. 70-73, 74-80.more by Fabrizio Mollo; M. L. Arancio, V. Buffa, S. Coubray, A. Curci, I. Damiani, R. E. Jones, A. Tagliacozzo, F. Trucco, L. Vagnetti, TORRE MORDILLO 1987-1990, Le relazioni egee di una comunità protostorica della sibaritide, a cura di F. Trucco e L. Vagnetti, CNR - Istituto per gli Studi Micenei ed Egeo-Anatolici, Roma 10/2001, pagg. 12, 13, 16 e 19; Torre Mordillo 1967 di G. Roger Edwards, Curatore Associato della Sezione Mediterranea, EXPEDITION, WINTER 1969, Traduttore dall’inglese: ing. mag. Domenico Nociti; Oliver C. Colburn, Torre del Mordillo [in agro di Spezzano Albanese] (Cosenza) - Scavi negli anni 1963, 1966 e 1967, in Notizie degli scavi di antichità 1977, pagg. 478-479, Traduttore dall’inglese: dott. Maurizio Gualtieri; Territorio di Sibari: Scavi della necropoli di Torre Mordillo nel comune di Spezzano Albanese: 1) notizie degli scavi aprile - Notizie degli scavi di antichità (1888 apr, Volume [3], Fascicolo 4); 2) notizie degli scavi luglio - Notizie degli scavi di antichità (1888 lug, Volume [3], Fascicolo 7); 3) notizie degli scavi settembre - Notizie degli scavi di antichità (1888 set, Volume [3], Fascicolo 9); 4) notizie degli scavi ottobre - Notizie degli scavi di antichità (1888 ott, Volume [3], Fascicolo 10); Paolo Orsi, XX. Spezzano Albanese — Necropoli di Torre Mordillo, Atti della R. Accademia Nazionale dei Lincei, Serie V, Notizie degli scavi di antichità, Vol. XVIII, Roma , 1921, pagg. 468-469}. Da un diploma del 15 agosto 1122 (Cfr. Ughelli, tomo IX, pagg. 291-292) della Badia di S. M. Nova Odigitria di Rossano (poi detta del Patire), con cui Manilia, figlia di Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo (l’Astuto), e suo figlio Guglielmo Granti, confermano alla stessa Badia una donazione del 1112 di un podere agricolo tra i fiumi Crati e Coscile, risulta che: ad oriente questo podere confina con la "antiqua urbe Mendonya" ed i casali Asquitini e Porcelli (nei diplomi del 1112 e 1130 risulta: "vallem Crati locum Ascengtinus Portzelles"), cioè il casale Ascesa del Porticello, dove scorre (e si traghetta) il fiume Coscile; a settentrione il suo confine va fin oltre la volta del fiume Coscile in cui trovasi l’antiquus pons, da cui deriva la sovrastante contrada «Volta del Ponte»; ad occidente detta cultura in ascesa (erta) lacustre raggiunge la sorgente dell’acqua che giunge in detto villaggio, ossia nella città di Mendonia, e nel villaggio o casale Ascesa del Porticello. Tutto ciò lascia supporre che detta Mendonia sarebbe Mardonia Lucanorum, citata da Plinio, e detta Μανδόνιον (nom.: Μανδόνιος) τῆς Ἰταλίας da Plutarco, in cui nel 338 a.C. Archidamo III di Sparta, chiamato dai Tarantini nel 342 a.C. per dirigere le loro forze nella guerra contro i Lucani ed i Messapi, aveva nella lotta trovato la morte ad opera di questi ultimi. Siccome all’epoca di questa guerra il confine lucano nella regione non costiera raggiungeva la valle del Crati, questa città di Mandonia viene a coincidere proprio con la cittadella di Torre Mordillo [Cfr. Francesco Grillo, Italia antica e medioevale (Ricerche storiche e di geografia storica), Capitolo V, pubblicato in Calabria Nobilissima (Periodico di arte, storia e letteratura calabrese), Anno VII, n. 21, dicembre 1953, Mario Borretti Direttore, via Guglielmo Tocci n. 6, Cosenza, pagg. 169-174].
  Dice Cosimo Scorza a pag. 34 di San Lorenzo del Vallo (Spigolature storiche), Seconda Edizione, Edizioni Trimograf, Spezzano Albanese 1986: «L’emigrazione del 1479 approdò alle foci del Coscile-Crati: Gli Albanesi sbarcati si diressero al casale di S. Lorenzo, qui indirizzati probabilmente dal principe Pietro Antonio Sanseverino, che doveva sposare, più tardi, in seconde nozze Irene Castriota, duchessa di S. Pietro in Galatina, nipote del grande Scanderbeg, dalla quale ebbe il sospirato erede Nicolò Bernardino, 12° conte della famiglia e V principe di Bisignano.
  È opportuno precisare che l’intero gruppo di emigrati si fermò "allo casale Sanctu Laurenctu", allora interamente spopolato ed ivi si mantenne unito fino al 1517, anno in cui incominciò a dividersi ed a distribuirsi nelle località corrispondenti agli attuali paesi albanesi dei nostri dintorni. Ciò è convalidato da un apprezzo del Regno di Napoli del 1517 e del 1521, eseguito da un certo Charles Leclerc per conto dell’imperatore Carlo V, che desiderava conoscere il gettito fiscale del regno[2].
  In questi apprezzi non figurano i nomi dei paesi albanesi dei nostri dintorni, mentre risulta che in S. Lorenzo c’erano 362 fuochi o nuclei familiari per una popolazione complessiva di 2000 abitanti. Dopo il 1521 gli Albanesi incominciarono a riemigrare verso i territori circostanti per vari motivi come vedremo più avanti.»
  Nella pagina successiva della suddetta opera si afferma che: «Dal 1521 in poi gli Albanesi, come si è accennato, incominciarono ad emigrare da S. Lorenzo nei feudi vicini che dovevano formare i paesi albanesi attuali del nostro circondario.
  A darcene la conferma è "La numerazione de li Albanesi Greci et Sclavoni habitanti in la provincia di Calabria Citra, fatta per (me) Marcantonio Maza de Monteleone (Vibo Valentia) in hoc anno prima indictione 1543 (secondo altri 1545 NdA) cum lo intervento del nobile Matteo Ferraro de Cusentia, deputato per lo magnifico tesaurero de dicta provintia de Calabria Citra a assistere"[3].
  Da questo censimento, incominciato il primo d’aprile e concluso il 30 maggio dello stesso anno, appare che la popolazione si è ridotta da 362 fuochi a 71, per una popolazione complessiva di 258 abitanti[4]: è evidente che gli Albanesi sono emigrati nei feudi circostanti; infatti in questo censimento figuravano le colonie albanesi del circondario, ad eccezione di Spezzano A., che sorgerà molto più tardi.»
  Alessandro Serra sullo stesso tema, in modo ancora più farneticante, a pag. 79 di Spezzano Albanese nelle vicende storiche sue e dell’Italia (1470 - 1945), Edizioni Trimograf, Spezzano Albanese 1987, afferma quanto segue: «In un mattino del 1517, la popolazione del casale di S. Lorenzo si risvegliò sentendo parlare dell’imperatore Carlo V e di un illustre incognito dal nome straniero, Charles Leclerck. Così si convinse che la dinastia aragonese era definitivamente finita e che anche il Casale faceva parte di quell’immenso impero su cui non tramontava il sole.
  E apprese pure un’altra notizia, ma questa la rattristava, che l’Imperatore Carlo V, per conoscere il gettito fiscale del Regno di Napoli (Imperatori e re sempre senza quattrini !), aveva dato ordine alla Regia Camera della Sommaria di fare il censimento delle famiglie, negli anni 1517-21, e che per tale incarico nel Casale era già venuto proprio Charles Leclerck !
  A lavoro ultimato, con nostra meraviglia risultò che solo di Albanesi il Casale aveva ben 362 famiglie con una popolazione che s’avvicinava ai 2000 abitanti.[5]
  Considerando anche il numero dei nativi ivi immigrati, il Casale ospitava una popolazione che s’avvicinava ai 3 mila abitanti !»
  Lo stesso Serra a pag. 87 di quest’opera così continua ad esprimersi: «Dall’apprezzo del Leclerck, nel 1521, nel Casale di San Lorenzo vivevano, come sappiamo, 362 famiglie albanesi con una popolazione di circa due mila abitanti. 22 anni dopo, nel 1543 per legge genetica e per l’arrivo dei Coronei, la popolazione doveva essere aumentata.
  Si verifica invece il contrario. In quel 1543 la Regia Camera della Sommaria fece fare un nuovo censimento (sempre a causa delle tasche vuote dell’Imperatore, il quale per riempirle, vendeva feudi, paesi, titoli e quant’altro gli fruttasse). L’incarico fu affidato a Marco Antonio Maza, il quale così definisce l’incarico: "... numerazione de li Albanesi greci et Sclavoni habitanti in la provincia di Calabria Citra, fatta per (me) Marco Antonio Maza de Monteleone (Vibo Valentia) in hoc anno prima indictione 1543 cum lo intervento del Nobile Matteo Ferraro de Cusenzia deputato per lo magnifico tesaurero de dicta provincia di Calabria Citra ..."[6].
  Il censimento, iniziato il 1° aprile, si concluse il 30 maggio. Da tal censimento la popolazione albanese del Casale di S. Lorenzo risulta ridotta a 71 famiglie con un totale di 258 abitanti. Quali la cause di questo sorprendente calo?
  La situazione del feudo ci illumina esaurientemente. Nel 1521, dopo l’apprezzo del Leclerck, 362 famiglie con circa 2 mila abitanti non potevano vivere con un migliaio di nativi in un ambiente privo di risorse, di ordine e in continuo fermento.
  Con l’arrivo dei Coronei (1532) la popolazione aumenta e la situazione si aggrava.»
  Premesso che il cosiddetto gruppo Coronei, che in realtà erano della Morea, di cui è rimasto traccia in una loro antica canzone dal titolo Moj e bukura More (Oh! mia bella Morea), toponimo veneziano medievale dato dai Crociati alla penisola greca del Peloponneso, perché la sua forma assomiglia a quella della foglia di gelso, in latino: morus, che, tra l’altro, ivi abbondava, e così continuato a chiamare all’epoca della loro migrazione, è giunto in Italia Meridionale nel 1533-34[7] con la flotta dell’imperatore Carlo V, comandata dell’Ammiraglio Andrea Doria, a favore della Nobiltà ("ciertos Caballeros") dei quali emise privilegi[8], il primo dei quali dell’8 aprile 1533, spedito al Viceré del Regno il 18 luglio 1534 ed esecutoriato dalla Regia Camera il 3 marzo 1538, si riportano di seguito le pagg. 262-265, relative alla Calabria Citra ed alla Calabria Ultra, del Foculario del Regno di Napoli, in Rendite del detto Reame di Napoli alla fine di agosto dell’anno 1521, facente parte della relazione finale di Leclerc, rimasto a Napoli dal 1517 al 1518 e dal 1520 al 1521, Estât du Royaulme de Naples par messire Charles le Clerc, chevalier, Président de la Chambre des Comptes à Lille, Commissaire et controlleur général de tous les officièrs de sa Mayesté Imperiale en son Royaume et Pays de Naples, British Museum, Everson, ms. 1105, in cui sono altresì copiate le sue istruzioni, ff. 9-35, tradotta in italiano da Gennaro De Gemmis dalla copia ms. nel Fondo Beltrami presso la Biblioteca Provinciale di Bari, ff. 37-88, che il Beltrami aveva trascritto per la sua Biblioteca e per il suo Archivio, il cui Foculario è stato pubblicato in Studi Storici Meridionali, Anno XI, n. 3 settembre - dicembre 1991, da Tommaso Pedio in allegato a Un Foculario del Regno di Napoli del 1521 e la tassazione focatica dal 1447 al 1595.
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  In questo Foculario si nota in modo lampante che Sancto Laurentio con i 362 fuochi, che, oltretutto, non è collocato tra gli Schiavoni, non è San Lorenzo (del Vallo) di Calabria Citra, che, tra l’altro, non vi compare affatto, bensì Sancto Laurentio di Calabria Ultra, che ora, col nome di San Lorenzo, trovasi in provincia di Reggio Calabria. Inoltre i fuochi degli "Schiavoni greci et albanesi" di Calabria Citra ammontano complessivamente in 785, di cui 276 solo in Sancta Sophia (89), Sancta Maria de Rota (52), Lungro (50), Sancto Naltrendro (48) e Sanito cocura (37), mentre gli altri 34 casali non superano ciascuno i 30 fuochi, condividendosi 509 fuochi, con una media aritmetica pari a 14,97, cioè appena 15 fuochi per casale. Castroregio e la sua frazione Farneta, San Demetrio, San Cosmo (Strigari), Spezzano e, come già detto, San Lorenzo non compaiono affatto, mentre troviamo Palazo con 11 fuochi, ubicata, come si vedrà meglio in seguito, nell’attuale territorio di Spezzano Albanese, e le attuali frazioni di San Demetrio, Schifo e Macchia dorto, rispettivamente, con 24 e 15 fuochi.
  Ciò che sorprende maggiormente è il fatto che San Lorenzo non compare neanche nel foculario del 1532, dato che Lorenzo Giustiniani in Dizionario geografico - ragionato del Regno di Napoli, Tomo VIII, Napoli 1804, pag. 180, riporta che "Nel 1545 fu tassata per fuochi 74, nel 1561 per 82, nel 1595 per 102, nel 1648 per 150, e nel 1669 per 46", nonostante quest’opera del Giustiniani parta dal foculario del 1532 per i centri abitati che ne sono tassati, come, p.e., Tarsia con 237 fuochi e Terranova con 375, e lo Scorza si limita a dire molto genericamente a pag. 42, nota n. 8, della suddetta opera: "Tuttavia secondo il foglio 262 della Regia C. della Sommaria fasc. cit. i fuochi" nel 1543 (1545 secondo il Giustiniani) "erano 74 e nel 1532 erano di più; vedi anche Giustiniani, Dizionario ragionato del regno di Napoli 1797-1816;", mentre il Serra, nonostante la sua suddetta opera sia mastodontica (pagg. 536, oltre l’indice), stranamente, tace su questo punto e passa direttamente a "L’ARRIVO DEI CORONEI" del 1533.
  Si fa notare, inoltre, che San Lorenzo (del Vallo) non appare nel focatico sia del 1443 che del 1447, in Giovanna Da Molin, La popolazione del regno di Napoli a metà quattrocento (Studio di un foculario aragonese), Adriatica Editrice, Bari 1979, né in quello del 1276, in Giuseppe Pardi, I registri angioini e la popolazione calabrese del 1276, in "Archivio storico per le provincie napoletane", XLVI (1921), pagg. 27-60, mentre San Lorenzo della provincia reggina veniva tassato per 331 fuochi col nome di Sanctus Laurentius Vallis Tucii nel foculario del 1447 suddetto. Infine Terranova da Sibari, che compare in detto focatico del 1447 con 224 fuochi, non compare in quello del 1276, in cui vi compare Tarsia cum casalibus con 1326 abitanti (che in quello del 1447 contava 151 fuochi), Camilianum con 190 abitanti, Sanctus Antonius con 209 abitanti, Bonia con 1408 abitanti, Sanctus Maurus con 2591 abitanti, Crepacorium con 1231 e un’altra Crepacorium con 1216 abitanti, entrambe, così come le altre, nel Giustizierato della Valle del Crati e Terra Giordana. Francesco Grillo in Italia antica e medioevale (Ricerche storiche e di geografia storica), Capitolo VI, pubblicato in Calabria Nobilissima (Periodico di arte, storia e letteratura calabrese), Anno VII, n. 19, marzo 1953, Mario Borretti Direttore, via Guglielmo Tocci n. 6, Cosenza, a pag. 6 riferisce quanto segue: «Inoltre i casali Labonia e Crepacore, (vedasi il diploma del 1198) siti presso Spezzano Albanese e Terranova di Sibari[9], sono dal Gradilone indicati disinvoltamente come facenti parte del territorio di Rossano, il cui casale Vonia, detto poi Lubonio, presso la montagna omonima, e dove pretese che fosse anche Crepacore[10], è stato arbitrariamente scambiato con Labonia.» Da quanto precede, visto che l’ubicazione di Bonia o Labonia è contesa da questi due autori, quantomeno si può ammettere che una delle due Crepacorium sopra citate, scomparse ante 1447, abbia contribuito, assieme a Sanctus Maurus, che nel 1447 si era ridotta a 39 fuochi (~ 176 ab.), e, forse, a Sanctus Antonius, scomparso ante 1447, almeno in parte, al sorgere, per la loro vicinanza, di Terranova, la cui origine, tenuto conto che i suddetti 224 fuochi di epoca aragonese abbiano avuto bisogno di un certo lasso di tempo per potersi formare e tenuto conto che il R. P. Giovanni Fiore da Cropani, in Della Calabria Illustrata: Opera Varia Istorica, Tomo I, Napoli MDCXCI, pag. 243, sostiene che: "Frà li molti, quali n’anno avuto il dominio, v’incontro Odoardo Tarsia, circa il mille trecento sette.", e che il 5 febbraio 1343 era «Comite Terranovae» «N. V. Nicolao de Jamvilla» (Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Reg. Avinione 61, f. 357; Francesco Russo, Regesto vaticano per la Calabria, Giuseppe Gesualdi Editore, Roma 1974, n. 6574), oltre al suo nome e all’architettura del suo castello, deve essere collocata in epoca tardo-angioina (XIV sec.), e che, per questo motivo, ha, impropriamente e apparentemente, aggiunto con Regio Decreto n. 1704 del 18 Febbraio 1864: da Sibari, scomparsa alla fine del VI sec. a.C. una prima volta e, col nome di Thurio, alla fine del VII sec. d.C. definitivamente e che, nonostante ciò, risulta, comunque, utile, per distinguerla dalle altre. Nell’opera G. De Luca - G. Mauro, TERRANOVA DA SIBARI Memorie storiche, Editore Delta Grafica, Città di Castello, pagg. 85 e 86, si legge: "Un importante documento del 1269 ricostruito dal Filangieri, sotto il titolo di ‘Iustitiario Calabriae’ ci fa sapere che «Re Carlo ordina al Giustiziere di Calabria di far eseguire le riparazioni necessarie al castello di Terrenove» (9)", la cui nota specifica: "R. FILANGIERI, Registri della Cancelleria angioina ricostruiti, vol. III, p. 160". Siccome ‘Iustitiario Calabriae’ altro non è che il Giustizierato di Calabria, che comprendeva tutti i territori a Sud di Catanzaro e della pianura di Decollatura e che aveva come capoluogo Reggio, ed il "Giustiziere di Calabria" non è altro che l’organo posto a capo di questa provincia meridionale della Calabria, la "Terrenove" di questo documento del 1269 altro non è che Sanctus Martinus vel homines Terre Nove Sancti Martini de Monte, che nel suddetto focatico del 1276 è tassata per grana 9396 per una popolazione calcolata di 783 abitanti, e non Terranova da Sibari. A tal proposito mi viene in mente una vecchia filastrocca in dialetto cosentino dell’area in osservazione, che con la ë muta o semimuta suonava così:
«I fimmën’i Terranova
........ (sputënë) ’n derra
e dicënë ca chiova.»
A. Savaglio in I Sanseverino e il feudo di Terranova, Edizioni Orizzonti Meridionali, Cosenza 2001, pag. 14, nota 2 di pag. 13, riporta che: «Nel periodo normanno, Terranova, fu assediata dalle truppe di Giovanni ed Enrico Kalà (Cfr. C. PEPE, Memorie storiche della città di Castrovillari. Ed. 1930, Castrovillari, pp. 99-100)». Anche questo è un tentativo subdolo, al fine d’inculcare al lettore della medesima opera l’esistenza di Terranova (da Sibari) in un’epoca addirittura precedente al suddetto focatico del 1276, in cui, come si è visto, questo paese non compariva. Come più dettagliatamente esposto in Wikipedia, l’enciclopedia libera, Ferdinando Stocchi, questi due fratelli Kalà sono nati dalla fantasia di un noto falsario ed accademico cosentino, come lo è stato Ferdinando o Ferrante Stocchi, nato a Taverna (CZ) nel 1611, che, ricevuto l’incarico di ricercare i documenti relativi ai due fratelli, che avrebbero seguito Enrico VI di Svevia in Calabria guidandone la conquista del Regno, per provare l’antica nobiltà di Carlo Calà, presidente della Regia Camera della Sommaria e convinto che i due fossero suoi antenati, creò una serie di falsi manoscritti in pergamena, riguardanti Giovanni ed Enrico Kalà, che fece depositare da alcuni suoi complici in varie biblioteche. Lo Stocchi scrisse poi una serie di libri su questi due fratelli, i primi due dei quali disse di averli scoperti all’estero, nonostante fossero stati stampati in Calabria, mentre gli altri li fece scoprire da alcuni suoi complici in alcune importanti biblioteche. La documentazione dello Stocchi nel 1660 costò a Carlo Calà 30 mila ducati e, dopo averla raccolta, la pubblicò nello stesso anno a Napoli col titolo "Istoria degli Svevi nel Conquisto del Regno di Napoli e di Sicilia", che arricchita di altri pretesi documenti, fu pubblicata in latino ugualmente a Napoli nel 1665 in due volumi col titolo "De Gestis Svevorum in Utraque Sicilia", il secondo dei quali dedicato alla vita di Giovanni Kalà, che, dopo un incontro con Gioacchino da Fiore, abate di Corazzo, si sarebbe ritirato in convento per il resto della vita in santità. Questa avventura di falsificazioni si scoprì dopo la morte dello Stocchi, avvenuta nel 1663, quando, oltre a tutta una serie di rivelazioni con lettere segrete e dichiarazioni anonime, indirizzate alle Autorità Ecclesiastiche, un certo Angelo De Matera, cosentino, compagno dello Stocchi nell’orditura dell’inganno, in punto di morte, vinto dai rimorsi, confessò in una lettera al vescovo di Martirano la sua complicità nella falsificazione di documenti tesi a provare la nobiltà di Carlo Calà, per effetto dei quali, tra l’altro, un individuo mai esistito (Giovanni Kalà) era stato ascritto tra i beati ed esposte alla venerazione dei fedeli ossa di animali in luogo consacrato (Cfr. F. Russo, Gli Scrittori di Castrovillari, Castrovillari 1952, pagg. 21-40; Storia della Diocesi di Cassano al Jonio, Laurenziana, Napoli 1964, Vol. I, pagg. 187, 317-322, 334-339; Napoli 1968, Vol. III, pagg. 4, 5, 121).
  Sanctus Antonius è un centro abitato ubicato nelle immediate vicinanze del Monastero di Sant’Antonio di Stridula. Secondo G. Roma è la Statio di Interamnia che sembra svolgere ancora un ruolo importante nella viabilità della Calabria settentrionale per tutto il Medioevo. Essa infatti è menzionata come rifugio (negli itinerari) di Carlo I d’Angiò, il quale, proveniente da Cosenza, si fermò a dormire per due notti, tra il 5 ed il 7 febbraio 1271, al "Palatium Sti Antonii de Strada" [Cfr. Roma G., Lena G., Modificazioni ambientali fra le confluenze dei fiumi Esaro-Coscile e Coscile-Crati (Calabria settentrionale), Relazione preliminare, in Atti III Seminario internazionale sul tema: "La storia del clima e dell’ambiente dall’antichità ad oggi", Centro Europeo per i beni culturali, Ravello (SA), 7-9 giugno 1996, Edipuglia, Bari 2003; Paul Durrieu, LES ARCHIVES ANGEVINES DE NAPLES - ÉTUDE SUR LES REGISTRES DU ROI CHARLES IER (1265 - 1285), Tome Second, Érnest Thorin Editeur, Paris 1887, pag 171, in BIBLIOTHÈQUE DES ÉCOLES FRANÇAISES D’ATHÈNES ET DE ROME, Fascicule Cinquante et Unième, Toulouse, Imp. A. Chauvin et Fils, Rue Des Salenques, 28; F. Di Vasto, Storia ed archeologia di Castrovillari, ed. Prometeo 1995, pag. 218; E. Conti, II toponimo Scribla e il primo insediamento normanno in Calabria, Archivio Storico per la Calabria e la Lucania XXXIV, 1965-1966, pag. 218]. Palazo, che tra il 1517 ed il 1521 contava soltanto 11[11]c fuochi albanesi, pari a circa (considerando 5 persone a fuoco, diversamente dai centri abitati più grandi, per i quali si considera 4,5) 55 abitanti, è proprio questo Palatium Sti Antonii de Strada o altro luogo del suo territorio, ripopolato da questi profughi albanesi, dato che "da un documento di età sveva si rileva che i confini di Sant’Antonio di Stribula si estendevano da questa parte fino alla terra di Conca"[12]g", in tenimento Sagittae, l’odierna contrada Saetta nel comune di Spezzano Albanese" (Cfr. F. Di Vasto, Storia ed archeologia di Castrovillari, ed. Prometeo 1995, pag. 217; E. Conti, II toponimo Scribla e il primo insediamento normanno in Calabria, Archivio Storico per la Calabria e la Lucania XXXIV, 1965-1966, pag. 221), in cui è stata edificata la chiesa Beatae Mariae Virginis de Spezano con annesso eremo ex Ordine Fratrum Haeremitarum Sancti Augustini in epoca anteriore al 1451 (Cfr. Bolla di Papa Nicolò V del 13 Luglio 1451, diretta: Archidiacono Ecclesiae Rossanensis, in Francesco Russo, Regesto vaticano per la Calabria, Giuseppe Gesualdi Editore, Roma 1975, n. 11222, e in Archivio Segreto Vaticano, Reg. Lat. 474, ff. 102v-103), oggi Santuario della Madonna delle Grazie, alla periferia est di Spezzano Albanese, in cui la tradizione colloca questi primi profughi albanesi, soprattutto per la presenza nelle vicinanze di alcune sorgenti di acqua potabile, e distante in linea d’aria 5,36 Km dal suddetto Palatium. Ma siccome in questo breve lavoro si può fare a meno della tradizione e ritenere che la terra di Conca[12]h possa non andare oltre la contrada Covella vera e propria e, quindi, ammettere che questi primi profughi, insediatisi nel territorio di Palazo[13], possano essersi stabiliti sul monte sovrastante e appartenente a questa contrada e, cioè, nei pressi della chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, in cui, come riferisce il Cassiani[14]i, "ove sorge la chiesa", "vi furono anticamente le celle degli Antoniani" (Canonici Regolari di Sant’Antonio di Vienne o di Sant’Antonio abate, che è lo stesso Sanctus Antonius de Strada, perché il "de Strada" è riferito a "Palatium"), di cui, riferisce sempre il Cassiani, "è memoria nella lapide sovrastante la porta principale dell’attuale tempio" (Cfr. immagine sovrastante, la cui chiesetta è menzionata nel primo Liber Defunctorum, mancante della parte iniziale, il 4 novembre 1649, in cui Don Marzio Rebecco fa seppellire “ne la chiesia di S.ta M. Costantinopoli” Domenica Cozifa di anni 28). Nell’aprile del 1663, durante l’arcipretura di Don Nicola Basta, vengono seppellite “alla Chiesa seu hospitale di Santa Maria di Costantinopoli” tre bambine, Lucrezia, Teresa e Geronima Mazia. Stessa caratteristica, cioè presenza chiesa/hospitale, si riscontra in Sant’Antonio di Stridula, in cui da due documenti del 10 gennaio e del 10 giugno del 1277 risulta esservi, rispettivamente, “Hospitali predicto”, cioè l’Ospedale di Sant’Antonio di Stridolo, e “Hospitale sancti Antonii de Stribula, quod subdictum est ecclesie sancti Antonii de Vienna” (Cfr. Napoli, Archivio di Stato, Rer. Ang. 41, carte sciolte, ff. 5v - 6. Inquisitio facta an. 1277, 10 Januarii. Id. f. 115. E. Sthammer, Bruchztücke mittelalterlicher Enqueten aus Unteritalien, in « Abhandlugen der Preussischen Akademie der Wissenschaften », Berlin 1933, pp.51, 55 - 56. F. Russo, Storia della Diocesi di Cassano al Jonio, Vol. IV, Laurenziana, Napoli 1969, pp. 54 - 55). Inoltre nel suddetto documento del 10 giugno si attesta che: “fecit dari et assegnari predicte ecclesie sancti Antonii terras laboratorias in non modica quantitate in loco Sagitte (Fondo Saetta, in territorio di Spezzano Albanese), ubi dicitur terra sancti Lazari”, attestazione questa che ci fa ritenere che la terra sancti Lazari in loco Sagitte altro non sia che il detto luogo in cui sorse la chiesa ed il rione di Costantinopoli, perché sanctus Lazarus, essendo patrono degli appestati (infettati), è come dire Lazzaretto, cioè Hospitale e, quindi, Ospedale. Tutto ciò ci porta a ritenere che prima è sorto un piccolo insediamento nell’attuale rione di Costantinopoli, composto pressappoco tra i 55 e i 110[11]d profughi albanesi e, poi, con l’arrivo della successiva più numerosa ondata migratoria degli arvaniti della Morea (Peloponneso), partiti da Corone tra il 1533 e il 1534, si è ripopolato man mano il quartiere al suo fianco orientale, formando i rioni Prato (Prati), San Giovanni (Shin Njanji) e Santa Maria (Shën Mërì Posht).
  Lorenzo Giustiniani, in Dizionario geografico - ragionato del Regno di Napoli, Tomo VIII, Napoli 1804, pag. 98, riporta che: «SPEZZANO PICCOLO, detto di Terranova per distinguerlo dagli altri suddivisati, ne ritrovo la prima tassa nel 1595 di fuochi 47, nel 1648 fu poi dello stesso numero, e nel 1669 di 73, e sempre dicesi noviter numerato», cioè numerato (registrato per la numerazione focatica) in modo nuovo (insolitamente, non come al solito), in quanto in passato questa numerazione avveniva con altro nome, che si può ragionevolmente ritenere essere stato, come detto, Palazo. Il Cassiani, non sapendo dare un significato plausibile a questo noviter numerato, riferisce, cambiando numerato con aedificato, che: «Dopo, il paese si ampliò, risalendo dal lato della Chiesa dei Santi Pietro e Paolo, e questa parte rinnovata si chiamò: "Spetianum noviter aedificatum". Così nelle antiche carte …»[15], il quale (Spetianum) soppiantò il "Casale delle Grazie"[16], nome quest’ultimo coniato dal Cassiani, in quanto, come precedentemente visto, nel focatico del 1595 questo centro abitato era noviter numerato SPEZZANO PICCOLO di Terranova con fuochi 47, mentre nel 1521 era numerato Palazo con fuochi 11, oltre al fatto che nella suddetta Bolla di Papa Nicolò V del 13 Luglio 1451 non si fa cenno ad alcun casale circostante alla chiesa Beatae Mariae Virginis de Spezano, sia pure disabitato, che avrebbe potuto accogliere i profughi albanesi giunti circa un trentennio dopo, ripopolandosi.
  L. Giustiniani, in Dizionario geografico - ragionato del Regno di Napoli, Tomo VIII (RI-SC), 1804, pag. 183, SANLUCIDO, riporta che: « Si vuole che nel 1092 Ruggieri Duca di Calabria avesse donata questa terra ad Arnulfo Normanno Arcivescovo di Cosenza. La mensa arcivescovile di questa città in aprile del 1494 permutò la detta terra con Alfonso II colle tre tenute dette volgarmente Corsi, cioè Saetta in pertinenza di Terranova, Volta di Carlo Curto in pertinenza di Corigliano, e Sanlorenzo in pertinenza di Tarsia, le quali erano state confiscate al Principe di Bisignano. A’ 15 agosto 1496 essendo poi seguita la pace tra Federico, ed i Francesi furono aggraziati i baroni rubelli, ma il principe di Bisignano non ebbe le dette Corsi. In oggi si possiede dalla famiglia Ruffo de’ duchi di Baranello. » In effetti questa permuta avvenne il 14 marzo 1494 a Napoli nella Regia Camera Sommaria (Cfr. Archivio di Stato di Napoli, Fondo Sanseverino di Bisignano, Serie carte n. 175, f. 52ss.). Dopo circa un secolo Bernardino Sanseverino, V principe di Bisignano, nonostante era notoriamente risaputo che il casale di Spizzano facesse parte del tenimento Sagetta (Saetta) soggetto alla giurisdizione della Mensa Arcivescovile di Cosenza, tenta di appropriarsene illecitamente, facendo così instaurare un giudizio. Nel corso di questo giudizio il Sacro Regio Consiglio emette ordinanza con nomina di un Tabulario al fine di individuare con una perizia tecnica i confini del tenimento Sagetta (Saetta) per verificare se l’ubicazione del casale di Spizzano cadesse o meno in detto tenimento. L’incarico viene assegnato al napoletano dott. Francescantonio d’Amato, che in data 29 marzo 1595 stende una perizia tecnica (Cfr. Archivio di Stato di Napoli, Fondo Sanseverino di Bisignano, Serie carte n. 175), che suona come una vera e propria sentenza, in cui si può leggere, tra l’altro, che: «... conferitomi sopra il luogo della differentia, et proprie al curso di Sagetta riuniti prima le parti con molti huomini vecchi, esperti, et pratici in detto luoco, quali furono ex off.o da me chiamati detti huomini mi mostrarono il corso di Sagetta, et quello per fini, et confini, ... et così giungendo il primo fine all’ultimo si viene a circondare tutto il corso di Sagetta dentro li quali fini stà sito et posto il casale di Spizzano con il territorio ad esso adiacente, et detti fini mi furono dalli predetti huomini mostrati et io viddi ocularmente, et dicevano esserno tutti veri, et così havevano visto sempre tenere, et possedere per la Chiesa Cosentina, et così havevano inteso da loro antecessori, et tra l’altri huomini esperti che furno con me sopra il luogo fù Calesio Cuccio albanese abitante in detto Casale di Spizzano, il quale diceva che a tempo che il Sig. Orazio Tuttavilla era Governatore del Stato del Sig.re Pr.pe vedendo che il casale di Spizzano stava dentro il corso di Sagetta territorio della Chiesa voleva fare sfrattare gl’albanesi che habitavano al detto casale di Spizzano, et farli ritirare dentro il territorio d’esso Sig.re Pr.pe, del che esso Calesio come persona eletta dall’Albanesi andò a supplicare il Sig.re Pr.pe, che non l’avesse fatti sfrattare, et esso Sig.re Pr.pe li disse che non dubitassero, che non l’averia fatto sfrattare, soggiungendo poiché il casale di Spizzano stà dentro il corso di Sagetta territorio della Chiesa voglio dare un altro luogo in cambio alla Chiesa per questo, che io non voglio roba di Chiesa, ma ce ne voglio dare del mio. Et dopo aver visto molto bene detti confini per li quali chiaramente appariva il casale di Spizzano et territorio adiacente essere dentro detto corso di Sagetta, ... et essendo andato sopra il luogo della differentia un’altra volta con il detto Proc.re et altri huomini del Sig.re Pr.pe, et ricevuto da detto Proc.re la detta Platea con la comparsa, trovai in detta Platea descritto il corso di Sagetta per fini, et confini, et detti fini, et confini, da me visti in presentia del detto Proc.re, et altri huomini esperti, ritrovai esserno li stessi di sopra nominati, che dall’altri esperti m’erano stati mostrati, et detti esperti prodotti per esso Proc.re similmente affermavano il corso di Sagetta esser sito, et posto con li fini di sopra nominati, et esserno tutti veri dentro li quali fini stà sito, et posto il casale di Spizzano, et territorio adiacente, et l’istesso Proc.re similmente affermava li prenominati fini esserno tutti veri, et dentro detti fini star sito, et posto il detto casale di Spizzano, et territorio adiacente, ... Et volendo dopo verificare li confini che si propongono per il Sig.re Pr.pe nel X° articulo conforme alla mie istruzioni per li quali fini esso Sig.re Pr.pe vuol mostrare il casale di Spizzano esser dentro il territorio di Terranova d’esso Sig.re Pr.pe, et non dentro il corso di Sagetta, ho ritrovato detti confini descritti in detto X° articulo non disegnano altro che circondare il casale di Spizzano circum circa per fini, et confini, ma tanto il detto casale di Spizzano quanto il territorio adiacente ad esso non stà dentro il proprio territorio di esso Sig.re Pr.pe, ma dentro il corso di Sagetta territorio della Chiesa conforme al che si vede oculatamente dal predetto disegno, ...». Con successiva ordinanza lo stesso Consiglio giudicante dispone una seconda perizia tecnica (Cfr. Archivio di Stato di Napoli, Fondo Sanseverino di Bisignano, Serie carte n. 175), per l’effettuazione della quale è stato incaricato il napoletano dott. Pompeo Mayorica, che provvede in data 25 giugno 1598 e da cui si rileva che: «... al fine di rivedere ad istanza del Sig.re Pr.pe di Bisignano la relazione fatta, dal D.r Francescant.o d’Amato sotto il 29 di marzo 1595, havendo monito l’una et l’altra parte li 9 del p.nte fatte le debite diligentie, et inteso col processo in mano tutto quello che sopra di ciò pretendesse il detto Sig.re Pr.pe con intervento di Prospero Cassiano proc.re fiscale, et del Auditor Ippolito Lanza, et del Raz.e Tiberio d’Urso, quali tutti intervennero per parte del d.o Sig.re Pr.pe, conferitomi sopra la faccia del luogo con intervento di cinque altri vecchi di età di settant’anni l’uno circa, tra i quali vi fu il giudice Antonino Bulotta tutti huomini di Terranova, et quanto dicevano prattichi in detto territorio et feudo di Sayetta, et inteso anche per parte della Chiesa Dom.o Cassiano quale contrariava a detti vecchi per esserno interessati tutti, essendo andato con tutti li soprannominati per fini, et confini per tutto il detto territorio, ... havendo congionto il p.mo fine coll’ultimo di detto curso di Sayetta, ho ritrovato tanto il prenominato casale di Spezzano, quanto tutto il territorio a quello adiacente esserci dentro il detto corso di Sayetta, nel territorio della Chiesa, et havendo voluto vedere li fini, et confini, che pone il detto Sig.re Pr.pe nell’articolo decimo, per il quale pretendeva che il casale di Spezzano esser dentro il territorio di Terranova, et non dentro il corso Sayetta, ho ritrovato che detti fini descritti in detto articolo sono veri, né disegnano altro che circondano il detto casale circum circa, ma tanto il detto casale di Spezzano, con detti confini, quanto il territorio adiacente ad esso, non sta dentro il territorio del Sig.re Pr.pe, ma dentro il corso di Sayetta territorio della Chiesa conforme a quanto ho visto oculatamente, et il simile m’hanno contestato, et approbato per parte di detti vecchi del Principe, esperti, et prattichi, et questo esser quanto per la verità ho possuto vedere, et conoscere sopra la faccia del luogo, et il tutto esser conforme all’altra prima relazione fatta dal d.o D.r Fran.o Ant.o d’Amato.» Dalle su riportate perizie tecniche si rileva con molta evidenza che era noto a tutta la popolazione, sia del casale di Spezzano che di Terranova, che il casale di Spezzano, era nel tenimento Saetta, appartenente alla Mensa Arcivescovile di Cosenza, con la quale lo stesso casale avrebbe dovuto stipulare i Capitoli. Ciò comporta che i Capitoli, sia quelli del 31 ottobre 1572, che quelli integrativi del 6 febbraio 1581, rinvenuti in copia da Giuseppe Angelo Gozzolini Nociti (nato a Napoli nell’ottobre del 1831), il secondo dei quali il 5 settembre 1858, e pubblicati dal Serra nella citata opera alle pagg. 104-111, sono dei falsi, perché non sono stati concessi dalla Mensa Arcivescovile di Cosenza e nemmeno dal Principe di Bisignano, a cui, come visto, non apparteneva il casale di Spezzano. Tutto ciò, inoltre, per amor del vero, lascia supporre che il Principe Spinelli di Tarsia non abbia svolto alcun ruolo, sia per la carcerazione in Rossano antecedente al 1° ottobre 1664 e per il decesso del 31 agosto 1666, di cui non è certo se avvenuto in carcere, dell’arciprete di rito greco Don Nicola Basta, sia per il conseguente cambiamento di rito, da quello greco a quello latino, a Spezzano, perché all’epoca di questi fatti non risulta che il tenimento Saetta, comprendente, come visto, il casale di Spezzano, sia stato venduto dalla Mensa Arcivescovile di Cosenza allo stesso Principe Spinelli; anzi, risulta il contrario, dato che, come riferisce Ferdinando Cassiani al punto 10 di pag. 60 della citata opera, per effetto dell’eversione della feudalità al demanio comunale di Spezzano è stato attribuito, tra l’altro, parte dei tenimenti: «Saetta e Raietto, esteso tomolate centoventinove, proveniente dalla Mensa Arcivescovile di Cosenza: sentenza Commissione feudale 27-6-1810, verbale di divisione col Comune di Terranova 8-6-1812», da cui si rileva che il tenimento Saetta, in cui, come visto, è compreso anche Spezzano, è continuato ad appartenere alla Mensa Arcivescovile di Cosenza fino alla conquista napoleonica del Regno di Napoli. Inoltre, Pietro Pompilio Rodotà in Dell’Origine, progresso, e stato presente del rito greco in Italia, Libro III, Degli albanesi, chiese greche moderne, e collegio greco in Roma, Roma MDCCLXIII, per Giovanni Generoso Salomoni, pag. 102, ci racconta che: «SPEZZANO. Ancorché questi Albanesi avessero esibito al S. Uffizio documento dell’universal consenso d’unirsi al rito latino; nondimeno la sacra Congregazione avveduta nelle sue azioni, essendo stata informata, che una tal commozione era parto della violenza, e delle macchine del Barone, che aveva sollevato il popolo colla mira di soggettare ai paesi comunicativi anche le famiglie de’ Sacerdoti greci conjugati, che per loro privilegj n’erano esentati; con lettera del 6 giugno del 1667 ordinò all’Arcivescovo d’opporsi alla strana mutazione. Il Barone rimasto poco soddisfatto del decreto, dappoiché le cose si posero in calma, adirossi contra coloro, che avevano di soppiatto rovesciati i suoi artifizj presso la stessa S. Congregazione, ed in diverse maniere li travagliò co’ supplizj, e con catene. In mezzo a sì fiero turbine gli Albanesi, per non soggiacere a più duri castighi e violenze, rinunziarono al rito greco poco prima del 1683. La chiesa parrocchiale, in cui pratticano in latino gli esercizj di lor divozione, è consecrata in onore di S. Pietro Principe degli Apostoli.» Si riporta di seguito la Determina di Ammissione al Passaggio di Rito della Sacra Congregazione de Propaganda Fide del 22 luglio 1667: «Molto Ill.re e M.to Rěv S.re mio Oss.mo Essendo stata supplicata la S. Cong.e per parte dellaCommunità del Casale di Spezzano Diocese di Rossano della licenza di passare dal rito Greco al Latino, attesa la mancanza totale di Sacerdoti Greci, che instruiscano quell’habitanti, e gl’aiutino nei loro bisogni Spŭali, hà la medesima Sacra Congr.ne doppo haver considerata l’infornat.ne di quel Monsr Arcivo, e fatta esaminare l’istanza dai Qualificatori del S. Offitio, determinato con l’approvazione della Santità di Nřo Sre, che si ammetta il detto passaggio, onde prego V.S. di prender l’ordine da S.S. perla Speditione del Breve, per il qual effetto Le mando copia di un’ altro simile spedito del 1634 plaComm. del Casale di S. Martino Diocese di Bisignano, e resto con baciarle le mani. Dal Palazzo de Prop.da Fide lì 22 Luglio 1667. D.V.S. F.to R. Gio. Gualtieri conScră, Oblig.mo ScřuR Germo Casanate». Questa Determina è interessante, non solo per la sua decisione, ma soprattutto perché descrive tutta la procedura per ottenere il passaggio di rito. Il primo passo è il ricevimento della supplica (istanza) da parte della Sacra Congregazione de Propaganda Fide, che, dopo averla considerata assieme alle informazioni dell’Arcivescovo dei supplicanti e dopo averla fatta esaminare dai Qualificatori del S. Offitio (Sacra Congregazione del S. Uffizio), provvede con la su riportata Determina, che sarebbe l’equivalente di un parere vincolante. Il tutto poi deve essere trasmesso a S.S. il Papa per l’Emissione (Spedizione) del Breve, che è la Licenza (Permesso) per passare al nuovo rito, cioè quello Latino. Tornando al Rodotà, da quanto precede si può affermare che non è vero ciò che egli ci riferisce, secondo cui «questi Albanesi avessero esibito al S. Uffizio documento dell’universal consenso d’unirsi al rito latino», ma questo documento è stato esibito alla Sacra Congregazione de Propaganda Fide, che l’ha fatto esaminare dalla Sacra Congregazione del S. Uffizio, che, una volta esaminato, l’ha dovuto restituire alla prima, cioè alla Sacra Congregazione de Propaganda Fide, con il proprio assenso (visto) al relativo passaggio di rito. Il Rodotà prosegue, affermando che: «la sacra Congregazione» (del S. Uffizio) «avveduta nelle sue azioni, essendo stata informata, che una tal commozione era parto della violenza, e delle macchine del Barone, che aveva sollevato il popolo … con lettera del 6 giugno del 1667 ordinò all’Arcivescovo d’opporsi alla strana mutazione». Siccome la suddetta Determina della Sacra Congregazione de Propaganda Fide è stata effettuata il 22 luglio 1667, cioè 46 giorni dopo l’effettuazione di questa strana lettera della Sacra Congregazione del S. Uffizio del 6 giugno 1667, quest’ultima, invece di ordinare «all’Arcivescovo d’opporsi alla strana mutazione», che ancora non era stata decisa, avrebbe dovuto trasmettere l’informativa ricevuta alla Sacra Congregazione de Propaganda Fide assieme alla revoca del visto d’assenso in precedenza espresso, in modo da impedire che venisse determinato il passaggio del rito da parte della Sacra Congregazione de Propaganda Fide, impedendo, così, anche l’Emissione (Spedizione) del Breve, che, secondo diversi autori, è del 3 agosto 1667, ma che, secondo una visione fatta dal sottoscritto, risulta essere del 23 agosto 1667, anche perché almeno un mese è necessario per l’emissione del quale dalla detta decisione del 22 luglio 1667 della Sacra Congregazione de Propaganda Fide (Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Secr. Brev. 1388, f. 225r; al f. 225v, Determina della Congr. di Prop. Fide. Cfr. inoltre Francesco Russo, Regesto vaticano per la Calabria, Giuseppe Gesualdi Editore, Roma 1984, n. 41180). Tutto ciò ci induce a concludere che quanto riferito dal Rodotà in merito al passaggio al rito latino è privo di fondamento, anche in considerazione del fatto che a Spezzano il Barone citato dal Rodotà non contava niente, dato che, come evidenziato in precedenza, lo stesso centro abitato era soggetto alla giurisdizione della Mensa Arcivescovile di Cosenza. Comunque è la sola supplica del Basta senza data, protocollata il 1° ottobre 1664 presso l’Archivio Propaganda Fide, f. 51, vol. 351, Lettere, Cong. Gen., in cui si afferma la sua carcerazione in Rossano, tra le diverse decine di documenti riguardanti questa vicenda debitamente datati, che fa ritenere dubbia, se non, addirittura, inesistente questa carcerazione del Basta. Stessa cosa dicasi per la rinuncia, estorta, alla sua arcipretura. Appare anche molto strano il fatto che dell’arciprete, che per le sue funzioni religiose compie centinaia, se non migliaia, di atti tutti debitamente datati, solo questa supplica risulta essere non datata. Inoltre in tutti i documenti di questa attività persecutoria nei confronti del Basta, effettuati dopo la sua presunta rinuncia ad arciprete, sia pure estorta, non appare essere rinunciatario, visto che lo si continua a chiamare "Don Nicola Basta" oppure "Arciprete" oppure "Arciprete Don Nicola Basta", come p.e. nella supplica di cittadini di Spezzano in Archivio Sacra Congregazione Riti, f. 148, n. 32, 1664. Inoltre, dalla detta supplica del Basta risulta che lo stesso «si trova carcerato ancora dal giorno che morse la f. m. Carrafa Arcivescovo», cioè che il Basta si trovava ancora in carcere a «Rossano» dal giorno in cui morì l’Arcivescovo (Giacomo) Carafa, quindi dal 7 aprile 1664, cioè più di 5 mesi prima della nomina del 15 settembre 1664 di Carlo Spinola, suo successore, ad Arcivescovo di Rossano, mentre nella petizione di 20 giorni dopo, cioè del 27 aprile 1664 (Cfr. Congreg. Gen. Vol. 351, pagg. 55-56), non c’è traccia di questa carcerazione, così come nella supplica di cittadini di Spezzano in Archivio Sacra Congregazione Riti, f. 148, n. 32, 1664. Tutto ciò lascia supporre che la suddetta unica supplica del Basta, a cui non è seguita alcuna risposta e, perciò, successiva alla morte del Basta e che abbia potuto sostituire, se necessario, un altro documento protocollato stessa data, sia falsa e che tutto il carteggio per il cambiamento di rito doveva servire soltanto affinché alla naturale morte del Basta si fosse creato un clima tale da considerare ovvio e, così, procedere ad un tale cambiamento, come in effetti è avvenuto, il cui fattore determinante sarà potuto essere la scarsa popolazione di questo centro abitato, che nel 1669, cioè circa due anni dopo la spedizione (emissione) del Breve del 23 agosto 1667, contava, come visto, appena 73 fuochi, pari pressappoco a 330 abitanti, che non potevano reggere le spinte latinizzanti, dovute al fatto che Spezzano, incluso nel tenimento Saetta, apparteneva alla Mensa arcivescovile di Cosenza, cioè alla chiesa di rito latino. Infine, nell’atto di morte del 25 ottobre 1662, riportato a pag. 152 di Spezzano Albanese nelle vicende storiche sue e dell’Italia (1470 - 1945) di Alessandro Serra, risulta "da Me Arcp.te D. Niccolò Basta di Spezzano", mentre nella suddetta unica supplica dello stesso arciprete, senza data, protocollata il 1° ottobre 1664 presso la Sacra Congregazione di Propaganda Fide, riportata nella medesima opera alle pagg. 164-165, risulta nella parte iniziale "l’Arciprete di Spezzanello Don Nicolò Basta Albanese", sottoscrivendosi infine "Humilissimo et fedelissimo Nicola Basta Arciprete di Spezzanello". Soprassedendo sulle due c di Niccolò, tra Nicolò e Nicola, invece, riportati nella stessa supplica, c’è una bella differenza. Ciò confermerebbe la non autenticità di questa supplica, sia perché il nome della sua sottoscrizione (a meno che non vi sia un errore di stampa) non corrisponde con quello con cui l’arciprete Basta si qualifica all’inizio della stessa, ma soprattutto se si considera, secondo quanto riferito nella stessa pag. 152 dallo stesso Serra, che cita come prova il suddetto atto di morte effettuato dallo stesso Basta ed un altro del 6 agosto del 1653 effettuato dall’arciprete don Marcio Rebecco, che il loro ("dei sacerdoti di rito greco") "livello di preparazione culturale, e quindi teologica ed ecclesiale, raggiungeva il fondo", a differenza dell’esposizione della suddetta supplica, da cui non appare questo livello di preparazione e che, vice versa, secondo quanto riferisce lo stesso Serra nella suddetta pag. 164, lascia solo "tanto a desiderare", con ciò confermando indirettamente che la medesima supplica non è opera del Basta, il cui livello di preparazione toccava il fondo. In quanto a Fabrizio Spinelli, che il 27 luglio 1658 era Principe di Tarsia (Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Ep. ad Princ. 137, f. 28; F. Russo, Regesto vaticano per la Calabria, Giuseppe Gesualdi Editore, Roma 1983, n. 38480), il Nunzio di Napoli comunicava al suo Segretario di Stato il 16 gennaio 1674 che: « Hora appunto sono avvisato che sia giunto a Napoli di ritorno da Cassano il giudice Rosa, che vi andò Commissario e sento che habbia trovato l’Autore dell’atroce delitto, commesso in persona del Vicario Capitolare (n.d.a.: Michele Della Marra) di quella diocesi, di un suo nipote e del Mastro d’Atti, e che quello sia D. Fabrizio Spinelli » (Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Nunz. Di Napoli 81, f. 49; F. Russo, Regesto vaticano per la Calabria, Giuseppe Gesualdi Editore, Roma 1984, n. 43016), mentre in data 19 gennaio 1677 lo stesso Nunzio precisava allo stesso Segretario che: « Del processo fabbricato dal giudice Rosa in Cassano sopra la morte di quel Vicario Capitolare (n.d.a.: Michele Della Marra) e dell’altro sacerdote suo Parente, solo trovasi per testimonianza de visu, che gli uccisori siano stati il Maggiordomo e altri della famiglia di Fabrizio Spinelli, figlio del Principe della Scalea, mandatovi dal medesimo D. Fabrizio, a causa delle censure comminategli dal Vicario per haver fatto uscire dalle mani della Corte vescovile di Cassano un chierico, che si conduceva carcerato et anche per qualche parola di poco rispetto proferita contro un Cavaliere dal medesimo Vicario » (Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Nunz. Di Napoli 88, f. 61; F. Russo, Regesto vaticano per la Calabria, Giuseppe Gesualdi Editore, Roma 1984, n. 43755). Ciò fa ritenere che questo Principe, che il Rodotà lo qualifica, come visto, Barone, non sia tanto attaccato alla chiesa cattolica e, di conseguenza, al suo rito latino. In conclusione di questo paragrafo dedicato a Don Nicola [Nicolò, secondo Don Vincenzo Longo (Cfr. V. Longo, Cronologia degli Arcipreti di Spixana 1598 - 1952, Edizioni Trimograf, Spezzano Albanese 1985, pagg. 15, 19 e 20)] Basta, mi preme citare un altro Basta, nato a Civita, di origini spezzanesi e, perciò, sicuramente stretto parente di Don Nicola, forse, essendo suo figlio Carlo morto in età infantile il 21 marzo 1649 (Cfr. V. Longo, o.c., pag. 19), un altro suo figlio nato dopo tale data in seguito ad eventuale suo temporaneo trasferimento con la propria famiglia a Civita, oppure figlio di Giorgio o di Cosma, suoi fratelli, l’ultimo dei quali, nato nel 1617 e morto a 36 anni, esercitò medicina, essendo laureato "dottor fisico", dato che porta il nome di suo padre Carlo e di cui risulta che: « Carlo Basta nativo di Civita, ma originario di Spezzano Albanese, fu sacerdote italo-greco di molta dottrina. Insegnò prima al Collegio greco di Roma e poi fu arciprete a Lungro, ove morì, compianto dal popolo, da lui edificato con la parola e con l’esempio. Lasciò i seguenti scritti, forse inediti: Quaestiones de Logica Aristotelis, 1668; Disputationes Medicinae practicae, 1670; Quaestiones de anima, susceptae a Constantino Belluscio, Collegii Graecorum de Urbe alunno, 1675.» (Cfr. F. Russo, Storia della Diocesi di Cassano al Jonio, Vol. II, Laurenziana, Napoli 1967, pag. 426).
  Nella suddetta numerazione in provincia di Calabria Citra, fatta da Marco Antonio Maza di Monteleone (Vibo Valentia) nel 1543, a Palazo, distante 8 miglia da Sancto Laurenzo (San Lorenzo del Vallo) risultavano 20 fuochi albanesi (Cfr. Domenico Zangari, Le colonie italo albanesi di Calabria, storia e demografia secoli XV-XIX, Editore Casella Napoli 1941, pag. 51). Se si tien conto, come visto[11]e, che parte di questi fuochi potesse contenere due famiglie riunite in una per formare un sol fuoco, perché una sola non era in grado di poter sostenere la relativa tassazione, i nuclei familiari effettivi potevano essere compresi tra 20 e 40, con una popolazione compresa tra 100 e 200 abitanti. Questa distanza di 8 miglia tra Sancto Laurenzo e Palazo è un’ulteriore conferma, tenuto conto della tortuosità della rete viaria del XVI sec., dovuta al fatto che la minor pendenza necessaria per il traino con cavalli, per superare dislivelli molto ripidi, come quello in questione, ne allungava il percorso, così come gli attraversamenti di corsi d’acqua, come quello del fiume Esaro, che Palazo è proprio Palatium Sti Antonii de Strada, riportato nei suddetti itinerari di Carlo I d’Angiò e ubicato in Sant’Antonio di Stridola. Lo Zangari a pag. 119 dell’opera su menzionata riferisce che: «Spezzano Albanese si distingue non tanto per la sua posizione topografica, essendo lontano dai due omonimi della stessa provincia, Spezzano Grande e Spezzano Piccolo, ma anche dagli abitanti dei casali albanesi per il tipo etnico, giunto sino a noi, nello stato di perfetta conservazione: alta statura, capelli biondi, folti baffi, occhi azzurri, lineamenti marcati, in contrapposizione a quelli di statura regolare e colorito della pelle bruno.», mentre a pag. 65 sempre della medesima opera riporta i cognomi degli abitanti di Palazo così come risultano dalla numerazione del 1543, che a tal proposito così si esprime: «In Palazzo (tra i piccoli influenti del torrente Mavigliano, che si scarica nel Crati, sono Fosso di Palazzo e Finita, da cui vien meglio denominato San Martino. In Lucania vi è anche Palazzo San Gervaso, che apparteneva al marchese di Renda. Ma noi crediamo la piccola colonia trasmigrata o assorbita): Baffi, Bardo, Brunetto, Comestabolo, Lopez, Pageres, Pisani, Ponti, Scura e Zingaro. Prevale Bardo.» Su questi cognomi si osserva che: Bardo deriva dall’albanese Bardhë, che tradotto in spagnolo, lingua dei regnanti, a Spezzano è diventato Blanca, col cui cognome compaiono 2 battezzati tra il 1598 ed il 1620, mentre il 24 gennaio 1819 compare Martino Bianchi, farmacista, marito di Maria Teresa Dorsa, per la nascita di Paola Maria (Cfr. relativo atto di stato civile del Comune di Spezzano); col cognome Brunetto a Spezzano tra il 1598 ed il 1620 compaiono 12 battezzati; Comestabolo è diventato Costabile; con Lopez a Spezzano compaiono nei libri parrocchiali nel 1767 la Magnifica Madalena Lopez, moglie del Magnifico Costantino Mortati, nel 1773 la Magnifica Caterina Lopez, moglie del Magnifico Giovanni Nemoianni, e nel 1774 la Magnifica Teresa Lopez, moglie del Jatrofisico (medico) Don Andrea Staffa, dopo essere diventato vedovo della Nobil Donna Anna Bugliaro; Pageres è diventato, verosimilmente, Pacere e poi Pace, che è un cognome presente a Spezzano; Pisani è presente a Spezzano; Ponti è diventato al singolare Ponte, cognome appartenuto a Rosa Ponte, morta a Spezzano l’8 gennaio 1815, ed a Vittoria Ponte, madre di Lucrezia Nocito, morta a Spezzano il 23 dicembre 1812 (Cfr. atto di stato civile del Comune di Spezzano del matrimonio del 27 ottobre 1817 tra Domenico Bellusci, ferraro di anni 27 nato e domiciliato a Spezzano, figlio del fu Belvedere, domiciliato in vita a Spezzano e morto il 29 agosto 1801, e di Teresa Dorsa, domiciliata a Spezzano, e Giulia Nociti, filatrice di anni 20 nata e domiciliata a Spezzano, figlia del fu Pietro, domiciliato in vita a Spezzano e morto il 20 marzo 1799, e di Rosa Ponte, domiciliata in vita a Spezzano e morta l’8 gennaio 1815; atto di stato civile del Comune di Spezzano della morte avvenuta il 23 dicembre 1812 di Lucrezia Nocito, filatrice in vita, di anni 57, domiciliata a Spezzano, figlia di Giovanni e di Vittoria Ponte, coloni domiciliati a Spezzano, moglie di Giovanni Minisci); col cognome Scura/o a Spezzano tra il 1598 ed il 1620 compaiono 13 battezzati; Zingaro a Spezzano è presente nel suo diminutivo plurale Zingarelli. Così, ritenere, come fa Domenico Antonio Cassiano in Il paese scomparso - Greco-albanesi in Val di Crati (sec. XV - XVIII). Ideologia e miti, Editrice Libreria Aurora, Corigliano Calabro 2009, pagg. 11, 13 e 14, che Palazo o Palazzo, sia ubicato «alla destra del fiume Malfrancato, nei pressi del bivio per S. Giorgio Albanese», «a distanza di schioppo dal Castelluzzo seu Palazo del Prencepe» nella tenuta agricola e di caccia in Sancto Mauro, edificato nel 1515, come si rileva dalla lapide murata sopra il portone d’ingresso, in cui si legge: « BERNARD. SANSEVER. BIS. PRINC. / DOMUM HANC. A FUNDAMENTIS / EXTRUXIT AN. SALUTIS MDXV », e non prima del 1509, come invece sostiene lo stesso autore, sulle rovine di un preesistente monastero di origine medievale ad opera di Bernardino Sanseverino, principe di Bisignano e conte di Corigliano dal 1495 al 1517, tra l’altro a circa 30 Km, pari a circa 20 miglia romane e 16 miglia napoletane (zona di Napoli prima del 1840), da Sancto Laurenzo, invece delle 8 miglia conteggiate dal Regio Numeratore, ha dell’incredibile. Inoltre, questa opera del Cassiano inizia a pag. 11 con il seguente periodo: «Il giorno 17 settembre del 1509, il reverendissimo Vito Ferraro, Abate Commendatario di S. Maria “de Ligono”, cioè dell’abbazia cistercense di S Maria “de Ligno Crucis”, sita alla località Ligoni di Corigliano Calabro, dettava al notaio coriglianese Antonio Armigari le condizioni alle quali dovevano sottostare i profughi albanesi che si erano stabiliti in Palazzo.», senza fornire la fonte in cui dovrebbe essere custodito quest’atto notarile, mentre nella terzultima e penultima pag. 154 e 155 trovasi che: «Tre anni dopo, avvenne la tragedia, raccontata crudelmente e realisticamente nelle carte del notaio Persiani di Corigliano (105). La domenica mattina del 23 febbraio 1547 - si noti bene il giorno perché è di estrema importanza -, tre fusti ossia tre piccole navi velocissime a remi e a vela, del tipo di quelle usate dai pirati del Mediterraneo nei secoli XIV-XVI, gettarono le ancore nella marina di Corigliano. Secondo una testimonianza dell’epoca, i pirati scendono e si avviano direttamente “in ditto Casale de lo Palaczo et pigliarono multi albanesi de ditto Casale”; li portarono nelle navi “et qlli pochi che restarono de tanto in acqua se ne sono partiti et no sanno dove siano portati”. Per conseguenza, il casale fu come svuotato dagli abitanti e rimase disabitato. I testimoni affermano che, dopo il rapimento degli albanesi, non trovarono alcuna persona nel casale, né italiana, né albanese, e neppure vi riscontrarono segni di recente dimora (“ne segno alcuno de pximo havernoci habitato”). Secondo quanto documentato nello scritto notarile richiamato, alcuni pagliai furono trovati bruciati, alcuni altri “scasciati et destrusciati, vacati de intero et dissabitatij”, le due o tre case “de fabrica” furono trovate aperte e disabitate e svuotate di ogni cosa (“...li havimo trovati aperti, disabitati senza cerci cosa alcuna”). Erano stati, quindi, rapiti gli abitanti, bruciati e distrutti i pagliai e saccheggiate le due o tre case. Solo i seminati non sono stati danneggiati; i testimoni, infatti, riferiscono di avere trovato, nei pressi del casale (“alli bandi”), “terreni seminati de grano et altre cose”.» Anche in questo secondo ed ultimo caso non viene fornita la fonte in cui dovrebbe essere custodito questo scritto notarile, ma in sua vece alla richiamata nota n° 105 vengono indicate, stranamente, le pagg. 184 e 189 del testo di Luigi De Luca, Nomi di famiglia i Calabria (oltre 500 cognomi di Coriglianesi dal Medio Evo ad oggi). Corigliano Calabro, 1995, il quale sembrerebbe riferirsi alla nota n° 106, che in effetti non viene riportata, relativa alla parte finale, riportata a pag. 156, di questo strano commento sul casale di Palazzo, secondo cui «Non si conoscono i nomi di eventuali superstiti, sfuggiti al sequestro. Se ci fu qualcuno, si disperse assimilandosi alla popolazione coriglianese; esistono ancora a Corigliano, cognomi presenti nel casale scomparso, come Ponti, Pisani (106)
  Se, ignari di quanto in precedenza ritenuto, potrebbe destar sorpresa e meraviglia il seguente passo, riportato a pag. 7 della Prefazione del 2 Giugno 2009, Martedì di Pentecoste, di Francesco Marchianò all’Opuscolo: G. Acquafredda - F. Marchianò, S.M. di Costantinopoli e la presenza francescana in Spezzano Albanese (COSENZA), Edizioni Bashkim, Spezzano Albanese 2011, secondo cui: «La chiesa di S. M. di Costantinopoli accoglie i simulacri di S. Antonio Abate, un culto proveniente forse dal feudo altomedievale di Sant’Antonio di Stridola (Stregola, Scribla, della Strada, ...) dove sorgeva un borgo dedicato al santo anacoreta, ...», alla luce di quanto esposto, da questo passo ci perviene una inaspettata conferma di quanto fin qui sostenuto, grazie all’intuito del Marchianò, che da oggi in avanti può anche eliminare quel prudente "forse" introdotto nel suo passo qui riportato. Ma c’è da aggiungere che, essendo nel gennaio del 1728 nominato Arciprete di Spezzano il 35nne Don Parisio Rebecco, il Cassiani a pag. 44 della sua suddetta opera[14]j ci fornisce la notizia secondo cui D. Parisio "cominciò ad aggiungere al titolo di Arciprete l’altro di Abate di S. Antonio, - forse perché aveva una giurisdizione ecclesiastica che si estendeva fino ad una chiesa che doveva essere nel «Casale di Sant’Antonio», forse perché era incaricato dell’Amministrazione del fondo di S. Antonio del quale esigeva le decime, mansione caratteristica e speciale degli antichi Abati. Questo titolo di Abate fu portato dagli Arcipreti di Spezzano fino a D. Vincenzo Maria Cucci". Il fatto che questo titolo di Abate si mantenne fino all’Arcipretura del Cucci, che si insediò nel 1805, è dovuto al fatto che con le leggi eversive della feudalità, attuate tra il 1806 e il 1808 durante la dominazione Francese del Regno di Napoli, il cui primo articolo della legge n. 130 del 2 agosto 1806, così recita: «La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili», venne meno anche la giurisdizione ecclesiastica sul feudo del detto ex Monastero di Sant’Antonio di Stridula, che, come visto, nasceva dal fatto che questo feudo si estendeva "fino alla terra di Conca" (contrada Covella, includente la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli col suo rione), "in tenimento Sagittae, l’odierna contrada Saetta nel comune di Spezzano Albanese".
  Alessandro Serra a pag. 71 della sua più volte citata opera ci fornisce una notizia tramandata, attinta a pag. 159 della Platea di Giuseppe Angelo Gozzolini Nociti (opera inedita in possesso di Giovanni La Viola presso il quale lo stesso Serra si fece una copia), al quale era stata fornita da Vittoria Spataro, una nobildonna di Spezzano morta nel 1859 all’età di 104 anni, secondo cui: "Una terribile invasione di moscerini venne a tormentare i nuovi abitatori, in modo che i fanciulli ne restavano accecati. Non potendo allora gli Spezzanesi resistere a tanto flagello, evasero in massa abbandonando il villaggio e andarono a situarsi in S. Lorenzo. Ciò avrà" (n.d.a.: sarà) "potuto avvenire poco dopo il 1500". Da questa descrizione tutto lascia supporre che si sia trattato di TRACOMA, che è estremamente legato alla povertà e alla scarsa igiene. Trattandosi di un’infezione batterica che causa ripetute congiuntiviti e si diffonde più facilmente e più comunemente nei bambini, le donne sono molto più sensibili a contrarlo rispetto agli uomini in quanto si occupano della cura e crescita dei loro bambini. A differenza di quanto risulta nella suddetta notizia, tramandata per circa 300 anni e perciò poco affidabile nei particolari, si ritiene che questa popolazione, formata, come detto, da alcune decine di famiglie, avrà abbandonato il proprio centro abitato, non per recarsi a San Lorenzo, nonostante non si può escludere, data la vicinanza, che qualcuna di queste famiglie abbia potuto sistemarsi provvisoriamente in quest’ultimo centro abitato, ma per sparpagliarsi provvisoriamente nei campi da loro coltivati, come coloni o bracciali, costruendo capanne e/o pagliai. Siccome la stessa notizia afferma che ciò è avvenuto dopo il 1500, è verosimile che sia potuto accadere nel 1561, nel cui foculario, pubblicato dal Mazzella nel 1601 (Cfr. Scipione Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, in Napoli, ad istanza di Gio. Battista Cappello, MDCI, pagg. 142-147), non compare il loro centro abitato, né sotto il nome di Palazo e né sotto quello di Spezzano, il cui Regio Numeratore ha potuto constatare solamente questo abbandono. Questa piccola popolazione la ritroviamo 18 anni dopo, quando nel 1579-80 1789 tomoli di grano, parte dei 3718 raccolti nella masseria di Gadella (Cassano), furono "mandati nella conservatoria di Terranova", il cui conservatore ne rispondeva "con altri grani di Terranova, incluse in questa partita tomola 200 che si prestorno alli Albanesi di Spezzano restituiti in mano di detto Conservatore" (Cfr. G. De Luca - G. Mauro, TERRANOVA DA SIBARI Memorie storiche, Editore Delta Grafica, Città di Castello, pag. 122, in cui si riporta anche la seguente fonte: Archivio di Stato di Napoli, Sommaria, Diversi, II numerazione, Vol. 123, cc. 174v-175r; A. Savaglio, I Sanseverino e il feudo di Terranova, Edizioni Orizzonti Meridionali, Cosenza 2001, pag. 113, in cui si riporta anche la seguente fonte: Libro et Notamento deli denari delo Illustrissimo Signor Principe di Bisignano che perveniranno in potere di me Jacovo Antonio PappasideroTesoriero Generale di Sua Signoria Illustrissima in lo presente anno ecc. IBIDEM; Vincenzo Longo, Spixana nei secoli 1470 - 1815, Edito dall’Amministrazione Comunale di Spezzano Albanese 1984, Linotipografia Trimograf di Spezzano Albanese 1985, pag. 23, in cui si riporta anche la seguente fonte: Archivio di Stato di Napoli, Collaterale, Negotiorum Camerae, Vol. VI, cc. 165r, 171v).
  Ora cercheremo di dedurre qualcos’altro con la logica.
  Si è visto che Spezzano tra il 1595 ed il 1648 contava 47 fuochi. Se, come sostiene il Cassiani, il paese si fosse sviluppato dal rione Santa Maria, con 47 nuclei familiari nel 1607 si sarebbe formato soltanto questo rione, tutt’al più, se parte di questi fuochi contenesse due famiglie riunite in una per formare un sol fuoco, perché una sola non era in grado di poter sostenere la relativa tassazione[11]f, i nuclei familiari effettivi potevano essere compresi tra 47 e 94 ed il centro abitato si sarebbe potuto estendere al più fino alle case retrostanti il tratto finale dell’attuale via Roma, perché già questo tratto, per la sua linearità, presuppone una organizzazione urbanistica, che all’epoca non solo non si poteva avere, ma nemmeno si poteva pretendere. Così ubicato, il centro abitato era equidistante da entrambe le chiese funzionanti in quell’epoca ed, essendo compresa la popolazione tra i 212 e 423 abitanti, sarebbe stata sufficiente per questa popolazione la sola chiesa di Santa Maria delle Grazie. Invece essendosi, come detto, formato il primo nucleo abitativo nel rione Costantinopoli, nel 1607 la chiesa di Santa Maria delle Grazie era molto distante dal centro abitato e si rese necessaria la chiesa di S. Pietro e Paolo, dato che il paese dal rione di Costantinopoli si sarà potuto sviluppare fino alla parte del rione Prato retrostante il nuovo tempio, in cui erano iniziate a sorgere le prime case. Prima della costruzione di questo nuovo tempio, essendo quasi tutta la popolazione concentrata nel rione di Costantinopoli, ristretto tra i valloni (N)Xhullu Mea, che all’epoca iniziava al di là dell’ex Via Nazionale, e quello compreso tra la contrada Cella e questo rione, in cui fino alla fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 c’era ancora la porcilaia (cimbat), lo stesso rione era diventato oblungo, oltrepassando lo spezzone di Via Plebiscito che lo attraversa, di cui esisteva solo il tratto che conduce(va) alla chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, e raggiungendo e oltrepassando di poco l’attuale ex Via Nazionale, fatta costruire da Gioacchino Murat a partire dal 1810 per intercessione dello spezzanese Angelo Mortati[1]b (fratello della mia quintavola Caterina Mortati), dottore in legge ed ex ufficiale napoleonico, che ne fece modificare il percorso rispetto al tracciato della romana Via Popilia-Annia, divenuta Via Regia di Calabria ad opera di Ferdinando IV di Borbone (Cfr. Carta geografica PROVINCIA DI CALABRIA CITRA dell’anno 1714 di DOMENICO DE ROSSI, riportata in ARRIGONI E BERTARELLI, Le carte geografiche dell’Italia ecc., n. 2451. S = 1:342.600. D = 52x42. Calcografia b/n. Biblioteca di San Marco. Collocazione: 21-B-6. Collezione: Camerale. Ordine: 9. N° inventario: 518), e che presenta una strozzatura, in modo particolare in corrispondenza di Via Albania, per l’attraversamento di questo rione. Questa parte a monte del rione di Costantinopoli, se paragonata a tutti gli altri quartieri sottostanti all’ex Via Nazionale, appare veramente la più antica, specialmente per le sue viuzze strettissime, che sembrano voler dire: Qui si insediò quel primo gruppo di profughi partito dall’Albania. In queste viuzze, in cui si trova anche il 'palazo' del Cassiani, si sente la frescura d’Estate, perché irraggiungibili dai dardi solari, e si sente anche il calore d’inverno, attraverso le quali passa di casa in casa. E non è un caso che proprio qui troviamo Via Albania e non solo. Troviamo l’ex Via Ellena, oggi Via Don Nicola Basta[17], e, poi, nello stesso rione a valle dell’attuale Via Plebiscito troviamo l’ex Via Pireo, oggi declassata in Via Vincenzo Luci, e, prospiciente questo rione, l’ex Via dei Coronei, oggi declassata in Via Antonio Lupinaro, che ci indicano i luoghi di insediamento del successivo gruppo di profughi arvaniti provenienti dall’ex Morea, oggi Peloponneso, oltre che dal resto della Grecia. Non è un caso che non troviamo né questi nomi, né nomi simili, nel rione Santa Maria e, nemmeno, in tutti gli altri rioni, a meno che non siano stati attribuiti di recente. Prima della costruzione della chiesa di San Pietro e Paolo Don Martino Barbato, cappellano della chiesa di Santa Maria di Spizzano (delle Grazie), avrà ritenuto utile la costruzione o il rifacimento della chiesa di San Giovanni a sue spese[18], per poter accogliere quivi quei pochi fedeli durante il periodo invernale, essendo la chiesa di Santa Maria delle Grazie difficile da raggiungere in questo periodo, specie dai più anziani, che normalmente, soprattutto per la mancanza di scuole, erano i più portati a seguire i riti religiosi, vuoi per la mancanza di strade selciate, vuoi per la distanza, vuoi per il clima invernale, che sul versante ionico, esposto alle gelide correnti artiche, è molto più rigido rispetto a quello tirrenico. Quanto detto poteva far comodo allo stesso Don Martino che all’epoca poteva aver superato l’avanzata età dei 50 anni, che allora, essendo la vita media più bassa rispetto ad oggi, lo si poteva considerare già anziano d’età, dato che, nonostante nel febbraio del 1615 "alla chiesa parrocchiale di S. Pietro, detta arcipretura, del casale di Spezzano, della diocesi di Rossano, vacante da 10 anni, con rendita di 24 ducati, si provvede con Martino Barbato, prete oriundo" (Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Dat. Aplca, Per Obitum F 29, f. 217v; F. Russo, Regesto vaticano per la Calabria, Giuseppe Gesualdi Editore, Roma 1979, n. 27533), lo stesso non è apparso più nella vita religiosa già successivamente al 2 novembre 1614, in cui celebra un battesimo, e che si ritiene essere passato dalla parte dei defunti non dopo il 1618. A pag. 34 della più volte citata opera il Cassiani dice che "Nell’epoca della quale ci occupiamo il paese doveva essere piccolissimo, perché in tutto il 1598 D. Martino Barbato segnò 19 battesimi. Nel 1599 i battezzati arrivavano a 33; nel 1600 si raggiunse il numero di 21; nel 1601 i battezzati furono 20; nel 1602 furono 25." Poi a pag 36 soggiunge: "A D. Pietro Antonio Lanza successe D. Carlo Basta, che morì nel 1647 nella casa dei Basta, che tutt’ora trovasi nella Via Ellena e che attualmente è abitata in parte da Vincenzo Luci fu Costantino"; inoltre alle pagg. 40-41 riporta che: "si trova in Spezzano, Sacerdote nel 1611" (n.d.a.: chierico e qualche anno dopo il 1611 sacerdote) "e poi Arciprete nel 1625, D. Carlo Basta" e conclude che: "se egli era già Sacerdote il 1611 la sua" "nascita deve rimontare verso il 1585", presumibilmente nella suddetta casa di Via Ellena in cui morì, oggi Via Don Nicola Basta. Vincenzo Longo in Spixana nei secoli 1470 - 1815, Edito dall’Amministrazione Comunale di Spezzano Albanese 1984, Linotipografia Trimograf di Spezzano Albanese 1985, riporta che "Dal 1598 al gennaio 1607 i nati registrati sono 246", per cui si ha che in 9 anni e un mese a Spezzano vi sono stati 246 nati con una media di circa 27 nati all’anno, mentre nei primi 5 anni, riportati dal Cassiani, essendo i battezzati 118, la relativa media è di circa 24 battezzati all’anno. Questi dati confermano quanto sostenuto in precedenza, secondo cui i fuochi tra il 1595 ed il 1648 sono compresi tra 47 e 94, con una popolazione compresa tra 212 e 423 abitanti. Con questa popolazione, se il paese si fosse sviluppato, come sostiene il Cassiani, dal rione Santa Maria, non sarebbe stato possibile trovare nella stessa epoca la casa dei Basta in Via Ellena, oggi, come detto, Via Don Nicola Basta, ma tutt’al più non oltre l’ultimo tratto di Via Roma sottostante Via Santa Maria. Dopo tutto iniziare la costruzione del centro abitato dal punto più alto quale è il rione Costantinopoli, specie nella parte a monte di Via Plebiscito, comporta che durante qualsiasi temporale la parte edificata non viene invasa dal fango, più o meno liquido, dell’acqua piovana e del terriccio da essa trasportato, che, al contrario, si riverserebbe nel caso in cui la parte più a valle venisse edificata prima di quella più a monte. Inoltre, la stessa tortuosità di Via Santa Maria, se si confronta al percorso meno tortuoso di Via Plebiscito e a quello lineare di Via Alfonso Cucci o a quello quasi lineate di Via Roma e di tante altre strade urbane al di sotto di Via Nazionale, sta ad evidenziare che essa era una strada in aperta campagna di collegamento di questo primo rione urbanizzato con la chiesa dell’allora Beata Maria Vergine di Spezzano, e, man mano che il paese si estendeva verso quest’ultima chiesa, le case vi si addossavano, così che ha mantenuto tutta la tortuosità dell’originario percorso campestre. Sicuramente molto meno tortuosa o quasi rettilinea sarebbe stata Via Santa Maria, se il paese si fosse sviluppato dal rione omonimo fino a quello di Costantinopoli, perché, così, non essendoci questa strada di collegamento in mancanza del rione di Costantinopoli con l’adiacente e sottostante chiesa di San Pietro e Paolo, il percorso ex novo non avrebbe avuto alcun vincolo da rispettare, se non quello dettato dall’urbanizzazione in estensione. Il Cassiani, che ha ritenuto, erroneamente, un primo insediamento al "Casale delle Grazie", ed il Serra, che ha ritenuto implicitamente questo casale assurdo, in quanto non vi era di esso alcuna traccia, né archeologica, né storica, ed ha creduto, di conseguenza anche erroneamente, che questo primo insediamento con "tende" e "pagliai" ed una "cappella" di "frasche" imbevute di "creta", che non lasciano tracce dopo qualche decennio dal suo abbandono, fosse stato ubicato su un, cosiddetto, "Canalone", subito a monte della sorgente di acqua potabile Kullumbri (Cfr. A. Serra, o.c., pagg. 65-67), avevano intuito che qualcosa era cambiato nella denominazione di Spezzano, ma entrambi l’hanno attribuita, come detto, ad un cambiamento di luogo, sia pure prossimo, con conseguente cambiamento di nome, non rendendosi conto che ciò che era cambiato, non era il luogo, bensì il solo nome, come più volte detto, da Palazo a Spezzano. Ciò ci permette di risolvere anche un altro enigma, quello della venerazione di Santa Maria di Costantinopoli, un culto religioso che non si riscontra in nessun paese del circondario di Spezzano e che, perciò, non può discendere dal dominio bizantino nel Thema di Calabria, ma, si deve ritenere, invece, che i primi albanesi che si insediarono nell’omonimo rione, hanno sfruttato quell’antica cella (hospitale) antoniana per fondarvi la loro prima chiesa, quella di Santa Maria di Costantinopoli, già venerata nella loro terra d’oriente e che nei primi tempi veniva denominata ufficialmente, come visto, con entrambi i nomi, cioè “Chiesa seu hospitale di Santa Maria di Costantinopoli”, mentre volgarmente la stessa chiesa veniva chiamata Cella, in arbëresh: Çela. Dopo il 1545, la popolazione era cresciuta, essendo diventata, come visto, tra i 100 ed i 200 abitanti, così che, risultando quella piccola cella, adibita a chiesa, molto angusta, si è iniziata ad utilizzare, benché un po’ distante, la chiesa della Beata Maria Vergine di Spezzano, che nel 1598, come risulta nel libro Renatorum, benché cappella, fungeva da vera e propria parrocchia. L’utilizzazione di questa chiesa, preesistente, come visto, al 1451, ma "elapsis diruta et collapsa" (rovinata per lesioni e crollata), come risulta nella suddetta Bolla del 13 luglio 1451, una volta ripristinata nelle sue antiche funzioni, ha consentito il cambio del nome del centro abitato adiacente al suo territorio, in quanto il paese iniziava ad estendersi nel medesimo territorio. Un’altra prova, sia pure indiretta, che il primo insediamento di Spezzano si formò nel rione di Costantinopoli, ce la fornisce inconsapevolmente il Cassiani, quando afferma a pag. 51 della più volte menzionata opera che Spezzano: "Aveva una via principale che, partendo dal largo Garibaldi, attraversando l’interno del paese, passava per la chiesa matrice e sboccava poi a Costantinopoli, dal gomito che oggi ancora esiste, costeggiante l’orto di casa Chefalo. Era l’attuale via Plebiscito dunque che formava la passeggiata principale, che rimaneva senza sbocco e che finiva allo spiazzale di Costantinopoli, fin dove ora trovansi i ruderi della mandria annessa al fondo Rinaldi, che anch’esso chiamasi « Cella » dalla omonima località. Quest’ultimo tratto di passeggio ancora oggi si chiama « spassiaturi » perché ivi si recavano tutti a passeggiare, quando la strada rotabile non era ancora aperta". Questo primo tratto a gomito della via Plebiscito, che secondo il Cassiani, erroneamente, è l’ultimo, ubicato nel rione di Costantinopoli, è stato nomato oralmente 'spassiaturi', per effetto di una lunghissima tradizione di passeggio da parte di tutti (i cittadini), sicuramente perché è il primo 'corso' di Spezzano, risalente alle sue origini, ed è, perciò, un’altra prova evidente che le sue origini, sia pure come visto col nome di Palazo, sono avvenute in questo rione.
  Da quanto precede non si può ritenere corretta l’eliminazione dalla toponomastica spezzanese di Via Pireo e Via dei Coronei, sostituite, rispettivamente, con Via Vincenzo Luci e Via Antonio Lupinaro[19], perché i loro nomi erano, se non delle prove, quantomeno due indizi concordanti, stanti ad indicare i luoghi, come qui illustrati, di insediamento dei relativi profughi arvaniti provenienti dalla Grecia, la prima delle quali ubicata proprio nel rione Costantinopoli, mentre la seconda tra questo rione e la chiesa di San Pietro e Paolo, tra le quali si trova përroi i (N)Xhullu Mes, il cui nominativo è (N)Xhullu Mea, cioè il vallone di Angelo/a Mea (poi Mia, oggi Muia o Muià), e dato che l’illustre concittadino garibaldino e l’altrettanto illustre concittadino pittore e scultore potevano essere onorati in strade urbane di più recente formazione, come più recente è la loro comparsa nel contesto storico, rispetto a quegli antichi profughi di lingua albanese nostri amati ascendenti.
  Si è visto come nel foculario del 1561, pubblicato dal Mazzella nel 1601 (Cfr. Scipione Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, in Napoli, ad istanza di Gio. Battista Cappello, MDCI, pagg. 142-147), non compare né Palazo e né Spezzano, il primo dei quali si è ritenuto in precedenza essere ubicato non in Palatio Sancti Antonii de Strada, bensì in altro luogo del suo territorio e, precisamente, nei pressi della ecclesia seu hospitale di Santa Maria di Costantinopoli. Si è ritenuto, inoltre, che: sia Palatio Sancti Antonii de Strada, la cui funzione era rimasta esclusivamente militare, fino a quando nel 1406, l’anno dopo la rivolta dei Sanseverino per il partito angioino e la sua repressione brutale, subì una distruzione violenta in seguito ad un attacco a sorpresa mentre erano in corso lavori, nonostante l’impiego dell’espressione Palatio, usata da Carlo I d’Angiò, che nel contesto storico dell’ascesa al potere di questo sovrano indicava piuttosto l’espressione della considerazione del sovrano verso il suo fedele vassallo Corrado de Amicis, che ivi lo aveva ospitato, che un cambiamento della funzione del castello, contraddetto dai risultati degli scavi archeologici; sia il relativo casale Sanctus Antonius con una popolazione superiore ai 200 abitanti, non siano mai stati più ripopolati dal loro abbandono, avvenuto, perché il luogo era diventato insicuro per alluvioni, conflitti dinastici e rivalità familiari, e insalubre per malaria, dopo il 1424, in cui Ruggero di Sanseverino lo cedette a Giacomello di Mastro Michele di Castrovillari, piccolo nobile di notorietà locale (Cfr. Anne-Marie Flambard Héricher, Scribla : La fin d'un château d'origine normande en Calabre, École Française de Rome, 2010, pagg. 311-313). Difatti, in precedenza si è fatto notare che questo casale non compariva più nel foculario aragonese del 1447. Ma il ritrovamento, durante gli scavi archeologici effettuati a Scribla o Palatius Sancti Antonii de Strada tra il giugno 1976 e l’ottobre 1979, di: a) un denaro o grana di Ferdinando I di Napoli, coniato/a tra il 1458 ed il 1494; b) una moneta molto usurata di rame di 5,90 g e 26,5 mm di diametro di Filippo II, coniata a Napoli tra il 1554 ed il 1598; c) un falso picciolo di Sicilia di rame del diametro di 12,8 mm, recante sul dritto uno stemma aragonese, coniato in Sicilia verso il 1550, falsificante una moneta di Ferdinando il Cattolico (1479-1516); ed, infine, d) un gettone di Firenze di rame dorato di 26 mm di diametro, recante sul dritto nel cerchio delimitante il campo centrale un giglio e al bordo esterno 21 globuli, mentre sul rovescio la lettera D nel campo centrale, nel bordo esterno 13 rose, ecc., che M. Pastoureau ha proposto di attribuirlo alla seconda metà del XV secolo (Cfr. Anne-Marie Flambard Héricher, Scribla : La fin d'un château d'origine normande en Calabre, École Française de Rome, 2010, pagg. 213-216), suggeriscono di ritenere che questi profughi albanesi, che dal foculario del 1517/21 in poi risultano censiti a Palazo (Sancti Antonii de Strada), sono andati a ripopolare proprio questo casale e non, come in precedenza ipotizzato, altro luogo del suo territorio. Questi profughi albanesi sono rimasti a Palazo (Sancti Antonii de Strada) fino a quando, tra il giorno successivo al termine del censimento 1545 ed il giorno precedente all’inizio del censimento 1561, in cui non compaiono più a Palazo (Sancti Antonii de Strada), essendo questo casale diventato malsano per la malaria, si spostarono nel casale di San Lorenzo già ripopolato, come visto, dai profughi arvaniti giunti dalla Morea, facendo crescere i fuochi di quest’ultimo casale da 74 nel 1543/45 a 89 nel 1561 (per quest’ultimo dato cifra Scipione Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, in Napoli, ad istanza di Gio. Battista Cappello, MDCI, pagg. 142-147). Solo dopo o, verosimilmente, subito dopo il censimento del 1561 gli albanesi di Palazo, seguiti, con molta probabilità, da una parte delle dette famiglie di arvaniti, non essendo riusciti ad integrarsi con gli abitanti di San Lorenzo, soprattutto perché nel frattempo in questo casale era sopraggiunta gente raccogliticcia e fuorusciti [Cfr. Cosimo Scorza, San Lorenzo del Vallo (Spigolature storiche), Seconda Edizione, Edizioni Trimograf, Spezzano Albanese 1986, pag. 40], necessaria al feudatario Barnaba Piscario, Cavaliere dell’Ordine di S. Giacomo (Cfr. Gabriele Bario, Antichità e Luoghi della Calabria con prolegomeni, aggiunte e note di Tommaso Aceti e le osservazioni di Sartorio Quattromani, Roma 1737, traduzione italiana di Erasmo A. Mancuso, Walter Brenner Editore, Cosenza 1979, pag. 567; Gabriele Bario, De antiquitate et situ Calabriae, Roma 1571, pag. 401, nonostante l’autore confonda il casale Sancti Laurentii con Castrum Laurentum), per la coltivazione del feudo, abbandonarono San Lorenzo e giunsero nei pressi delle celle antoniane, trasformate poi da questi profughi in ecclesia seu hospitale di Santa Maria di Costantinopoli, ad appena 1 Km di distanza, facendo quivi sorgere l’omonimo rione, il più vicino nell’epoca in esame da San Lorenzo e da cui ebbe origine il casale, che già nel 1579/80, come detto, risulta essere chiamato Spezzano, quando 1789 tomoli di grano, parte dei 3718 raccolti nella masseria di Gadella (Cassano), furono "mandati nella conservatoria di Terranova", il cui conservatore ne rispondeva "con altri grani di Terranova, incluse in questa partita tomola 200 che si prestorno alli Albanesi di Spezzano restituiti in mano di detto Conservatore".
  Lo Scorza afferma alle pagg. 15 e 16 della suddetta opera che: «Com’è noto, le strade portano lo sviluppo delle regioni che attraversano e, perciò, forse proprio in questo periodo, sorse, per ragioni strategiche, un accampamento militare romano chiamato "Castrum Laurentum". Non possiamo affermarlo con certezza assoluta, ma senza timore di essere smentiti, il "Castrum Laurentum" deve identificarsi in S. Lorenzo del Vallo.
  Questa ubicazione ci viene fornita dall’imperatore romano Antonino Pio (138-161 d.C.) il quale attraversando la Calabria sulla via Popilia così scrisse: "... Post Tarsiam Senitum flumen decurrit (il torrente Fullone). Inde Laurentum castrum est edito eoque sulubri loco situm, quod Sybaris fluvius praeterfluit, cui suptus castrum Isaurus fluvius miscetur. Castro huic mons imminet, ex quo circumvicina regio conspicitur"[20]k.
  Da questo passo è facile dedurre che il Castrum Laurentum non può che identificarsi nell’attuale S. Lorenzo del Vallo, dominata dalla ridente collina di S. Salvatore e bagnata dal fiume Esaro.»
  Il Serra su questo tema così si esprime alle pagg. 74 e 75 della medesima opera: «Pochi anni dopo la costruzione della Popilia, l’Imperatore Antonino Pio (138 - 161 d.C.) nel suo "Itinerarium Provinciarum" ci diede preziosi ragguagli sulla posizione ed importanza del Castrum: "... Da Tarsia (Caprasia) scorre il fiume Sineto (Follone). Più in là è l’accampamento di Laurento, posto in alto e salubre; lontano scorre il fiume Sibari (Coscile), nelle cui acque sfocia l’Esaro, che scorre sotto l’accampamento. Un monte lo sovrasta (la collina di S. Salvatore), dal quale si vede tutta la regione circostante[21]". Più tardi, posizione, salubrità del clima e sicurezza offrirono riposo e ristoro all’Imperatore Marco Aurelio.»
  Se si va a tradurre questo passo secondo le regole della grammatica e della sintassi latina, si ottiene quanto segue: "... Dopo Tarsia (una volta Caprasae, oggi Canicella o Caselle di Tarsia) scorre giù (decurrit) il fiume Senito. Quindi (Inde) è ubicata (est ... situm) la fortezza (castrum; anche: cittadella, roccaforte) di Laurento in luogo elevato (edito ... loco) e alquanto (eoque) salubre (sulubri), dinanzi alla [presso la, avanti alla, vicino alla, oltre la (praeter..., prep. che regge l’accus.)] quale (quod) scorre (...fluit) il fiume Sibari (Coscile), al quale sotto (cui suptus) la fortezza (castrum) si congiunge (miscetur) il fiume Esaro. Un monte sovrasta questa fortezza, dalla cui sommità si scorge (conspicitur) la regione circostante".
  Si riporta lo stesso passo, che trovasi a pag. 567 di Antichità e Luoghi della Calabria di Gabriele Bario con prolegomeni, aggiunte e note di Tommaso Aceti e le osservazioni di Sartorio Quattromani, Roma 1737, traduzione italiana di Erasmo A. Mancuso, Walter Brenner Editore, Cosenza 1979: «Dopo Tarsia scorre il fiume Senito. Quindi si incontra la cittadella di Laurento, posta in luogo alto e piuttosto salubre; scorre vicino ad essa il fiume Sibari, e sotto la sua cittadella si versa il fiume [22(b)]Isauro. Su questa roccaforte pende un monte, dal quale si vede la regione circostante.»
  Il precedente passo è preceduto dal seguente: «Dopo Besidia[23] v’è la cittadella di [24]Tarsia, una volta [25a]Caprasae, citata da Antonino Pio nell’Itinerario, tra i fiumi Isauro e Crati. L’agro di Tarsia è fertile: si produce un vino eccellente, cresce il terebinto, i legumi selvatici.»
  Lo Scorza traduce il prefisso praeter di praeterfluit "molto lontano", come si può constatare nella sua nota di questo passo, che qui corrisponde alla n. 20[20]l, quanto in qualsiasi vocabolario latino troviamo "dinanzi a", "presso", "avanti a", "vicino a" oppure, quando le circostanze lo consentono, "oltre". Inoltre lo stesso traduce cui suptus castrum Isaurus fluvius miscetur, il cui pronome relativo segue Sibarys fluvius, a cui, perciò, si riferisce, invece che con una sola proposizione, come la seguente: "al quale sotto la fortezza si congiunge (miscetur) il fiume Esaro", con ben due proposizioni, contenenti due pronomi relativi, invece dell’unico cui contenuto in questa proposizione latina, e ben due verbi, al posto del solo miscetur, pervenendo alla seguente: "nelle cui acque sfocia il fiume Esaro, che scorre sotto l’accampamento". Così dalla traduzione dello Scorza ne scaturisce che il fiume Sibari (Coscile), invece di scorrere dinanzi alla Fortezza di Laurento, come è sostenuto nel testo latino, si viene a trovare molto lontano da essa, mentre il fiume Esaro, che secondo il testo latino si congiunge sotto questa Fortezza col fiume Sibari (Coscile), risulta essere il solo che "scorre sotto l’accampamento", cioè la Fortezza di Laurento. Non essendoci traccia in San Lorenzo di alcuna Fortezza, Roccaforte o Cittadella di epoca romana, la cui traduzione latina è Castrum, lo Scorza traduce Castrum con Accampamento, che una volta smontato non lascia alcuna traccia, mentre qualsiasi vocabolario latino non tascabile ci dice che Accampamento è la traduzione di Castra con genitivo Castrorum e non Castrum (v. G. Campanini e G. Carboni, G. B. Paravia & C, 1959, pagg. 96 e 97).
  Il Serra opera in buona sostanza la stessa traduzione dello Scorza, a meno che non si sia limitato a copiarla, con la differenza che al posto del suddetto "molto lontano", vi pone "lontano", per sostenere, come lo Scorza, che il fiume Sibari (Coscile), diversamente dal dettato del testo latino che lo vuole ubicato dinanzi a questa Fortezza (di Laurento), si viene a trovare ad una distanza tale che si deve per forza escludere che possa trattarsi della Roccaforte di Torre Mordillo, descritta nel su riportato testo latino del Barrio e che almeno fino alla fine del XVIII sec. era, guarda caso, denominata Torre di Coscile, la cui cinta muraria con le sue torri è stata messa in luce durante gli scavi archeologici del 1963, 1966 ed il 1967 {Cfr. Oliver C. Colburn, Torre del Mordillo [in agro di Spezzano Albanese] (Cosenza) - Scavi negli anni 1963, 1966 e 1967, in Notizie degli scavi di antichità 1977, pagg. 478-479, Traduttore dall’inglese: dott. Maurizio Gualtieri}, per sostituirla con una Fortezza fantasma lontana o molto lontana dal fiume Sibari (Coscile), cui suptus castrum Isaurus fluvius miscetur (al quale sotto la fortezza si congiunge il fiume Esaro) e che si troverebbe in Sancto Laurentio, casale questo che potrebbe, come dice il nome, essere sorto nei pressi di qualche ecclesia Sancti Laurentii di origine basso medievale.
  Per quanto riguarda il monte che sovrasta Laurentum castrum, il cui nome potrebbe discendere dal Laurus nobilis (alloro) presente in questa zona, non è difficile immaginare che si tratta proprio del monte su cui è ubicata Spezzano Albanese, dalla quale si ammira la regione circostante a questa Fortezza, oggi denominata Torre Mordillo, ma nel XVI, XVII e XVIII sec. Torre di Coscile (v., tra l’altro, Cesare d’Engenio Caracciolo, Ottavio Beltrano, & altri Autori, Descrittione del Regno di Napoli diviso in dodici Province, VII impressione, in Napoli, per Ottavio Beltrano, e di nuovo per Novello de Bonis, 1671, pag. 190).
  Girolamo Marafioti in Cronache, et antichità di Calabria, in Padova, Ad Instanza de gl’Uniti, MDCI (1601), a pag. 288a, riporta lo stesso passo tradotto, attinto dal Barrio, sia pure in un percorso inverso, nel modo seguente: «Appresso Terranova incontra un Castello in luogo alto fabbricato chiamato S. Lorenzo incanto ’l quale discorre ’l fiume Sibari, e con esso si mescola sotto ’l Castello ’l fiume Isauro: e più oltre occorre un’altro Castello posto tra ’l fiume Crate, e ’l fiume Isauro anticamente chiamato Caprase, che già sotto questo nome stà notato nell’itinerario d’Antonino Pio, mà hoggi volgarmente è chiamato Tarsia. Quivi le campagne sono fertilissime; nasce la siliqua silvestre, e ’l terebinto.» Come si può notare, anche da questa, chiamiamola pure, traduzione viene confermato quanto già in precedenza sostenuto, secondo cui questo "Castello" è "in luogo alto fabbricato ... incanto" (accanto, cioè né molto lontano, come sostiene lo Scorza, né lontano, come sostiene il Serra) "’l quale discorre ’l fiume Sibari" (Coscile), anche se qui, diversamente dal passo del Barrio, è impropriamente "chiamato S. Lorenzo" e non Laurentum, cioè Laurento. Questa, come detto, traduzione prosegue, precisando che, come sostenuto più volte in questo lavoro: "e con esso" (Sibari o Coscile) "si mescola sotto ’l Castello ’l fiume Isauro". Quindi anche dalla descrizione di questo passo del Marafioti emerge con molta chiarezza che la Fortezza, Roccaforte o Cittadella, qui denominata "Castello", non può essere che quella di Torre Mordillo, accanto alla quale scorre il fiume Sibari (Coscile), al quale Coscile si mescola sotto questa Fortezza (nel passo chiamata, impropriamente, Castello, pur non essendo di epoca medievale, in cui sono sorti i veri e propri castelli) il fiume Esaro, che confluisce a circa 400 m da questo sito archeologico, ma che meno di un secolo fa questa confluenza avveniva proprio sotto questa Cittadella, dato che il fiume Esaro, che oggi costeggia il monte sovrastante in corrispondenza delle Terme di Spezzano Albanese, continuava a costeggiare lo stesso monte per tutto il suo percorso a valle, fino a sotto Torre Mordillo, prova ne è il ponte insabbiato al termine della discesa della ex S.S. 19, sotto cui passava il suo percorso.
  In conclusione di quanto svelato, approfitto dell’occasione per ricordare un accadimento, a dir poco, inaudito, che mi ha particolarmente colpito. In seguito all’attentato del dicembre 1856 da parte del soldato Agesilao Milano da San Benedetto Ullano (CS), per avere colpito al petto con la baionetta re Ferdinando di Napoli durante la grande parata dell’Immacolata al Campo di Marte, «Furono anche arrestati in quell’epoca Giuseppe Marchianò e Gennaro Mortati, che per uscire dalle carceri dovettero aspettare gli arbori del ’59, quando il re Borbone morì corroso dai vermi e quando per la vittoriosa guerra contro l’Austria il trono del suo successore si sentì minato e scricchiolante fin dalle basi. ... Il 28 giugno di quell’anno, in Napoli, per una sommossa di popolo, che reclamava la liberazione dei reclusi calabresi, venne dato dalla Reggia l’ordine della scarcerazione e poi dalla Reggia stessa un secondo ordine al Capitano Potenza - sotto pretesto di sedare il tumulto - d’uscire incontro ai liberati e fucilarli. Il larghetto Carolina fu il teatro dell’eccidio. Giuseppe Marchianò cadde colpito da due ferite mortali al polmone e all’inguine destro. I compagni ed il popolo si dispersero, la piazza diventò deserta. Un passante vide quel corpo esanime e lo trascinò dietro un portone. Poco dopo un gendarme, dalla cera sinistra, ricercava l’uomo caduto, ma la pietà popolare aveva già trasportato il Marchianò all’Ospedale dei Pellegrini, dove per le cure del chirurgo Olivieri guarì completamente (*), e fu poi caposezione al Ministero di Grazia e Giustizia e Ispettore Centrale dell’Economato Generale. Giuseppe Marchianò fu uomo di vasta erudizione, di grande bontà e di non comune rettitudine. Era nato a Spezzano Albanese l’otto gennaio 1830 e morì in Napoli il 7 aprile 1902.
  (*) Ai Pellegrini il Marchianò fu visitato dall’ambasciatore d’Inghilterra che riferì al Primo Ministro Gladstone il fatto barbaro, indice eloquente della ferocia borbonica. Il ferito, che prima non era guardato di buon occhio, dopo la visita del diplomatico inglese fu circondato ai Pellegrini di speciali cure e l’episodio forse non fu ultima causa dell’azione energica di Gladstone contro l’esosa dinastia.»[26]
ing. Domenico Nociti
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    [1]^a^b «Erano le ore 21, il giorno      marzo (1806) allorché venne qui l’avviso che i Generali Reynier, Werdier e Franceschini, che comandavano tre Divisioni Francesi attrovavonsi in S. Antonio, ove si celebra la fiera di Ottobre. Vollero questi Generali che una deputazione di Spezzano fosse colà scesa. In fatti D. Angelo Cucci, D. Angelo Mortati e D. Pietrantonio Staffa furono invitati a fare questo passo.» [Cfr. Vincenzo Maria Cucci, Le Cronache (1805 - 1821), Gli avvenimenti storici dal 1805 al 1821 raccolti da coetanei, ed oculatamente da me osservati in questa padria di Spezzano, sulla Via Consolare, che comunica con tutto il Regno di Napoli e le Calabrie Citra ed Ultra, Ottobre 1821, a cura di Giovanni La Viola, TNTgr@fica srl, Spezzano Albanese, Settembre 2000, pag. 20]. «È sicuro che Spezzano parteggiò per i Francesi, che venivano in nome dei nuovi principii, tanto che il Generale Massena di ciò si persuase e guardò questo paese con particolare benevolenza. Contribuì molto a persuadere il Massena in questi termini Angelo Mortati ch’era stato ufficiale nell’esercito francese ed aveva conosciuto il Massena, al quale si presentò vestito della sua vecchia divisa. Il generale, che lo riconobbe, accolse cordialmente il Mortati; accettò la sua ospitalità e rimase nella sua casa per tutto il breve periodo di permanenza in Spezzano. Col Mortati spesso il generale Massena s’intratteneva in lunghe conversazioni rievocatrici.» (Cfr. Ferdinando CASSIANI, Spezzano Albanese nella tradizione e nella storia (1471-1918), TIPO-EDITRICE BRUZIA, Catanzaro 1929, pag. 65). «A questo punto rientra in scena Angelo Mortati, la personalità più in vista a Spezzano Albanese, tenuta in grande considerazione dalle autorità francesi. Nella costruzione del tronco Castrovillari - Cosenza, il Mortati ebbe pars magna, essendo nelle grazie del maresciallo francese Mac Donald che dirigeva i lavori. Secondo il progetto la strada doveva passare per il ponte di Ricetto sul Cosciletto, nel territorio di Castrovillari, ove erano già stati messi i fondamenti del ponte ed erano già stati costruiti alcuni pilastri. Da quel punto la strada doveva dirigersi per Casello di Campagna nel territorio di S. Marco e così congiungersi con quella che porta a Cosenza. Come si vede la strada doveva seguire il tracciato della Popilia, e quindi passare lontano dall’altipiano. Da quella strada mal ridotta del luogo passava ancora il procaccia postale. Il Mortati, mettendo in luce il pericolo di vallette incassate e di burroni che favorivano le imboscate, e mettendo in rilievo la posizione strategica del nostro altipiano, in considerazione del fatto che la strada aveva carattere militare - non per nulla dirigeva i lavori un maresciallo dell’armata - convinse Mac Donald a deviare la strada in quel tratto, facendola passare attraverso l’altipiano e per l’importante centro di Spezzano. ... Per rendere più proficua la sua opera, aveva portato la sua presenza nei settori più importanti. Organizzato il Comune ed istituiti i registri dello Stato civile, entrò a far parte del Decurionato. Istituito il Distretto di Castrovillari, fu eletto consigliere distrettuale. In quel tempo lo Stato aveva il monopolio della polvere da sparo, mentre altri, di contrabbando, la fabbricavano per i briganti ed i privati cittadini. Assieme alla licenza per la fabbricazione, si concedeva anche l’esonero dal servizio militare. Nel 1811 don Angelo ebbe l’appalto per il suo paese. Doveva produrre 15 cantaia di polvere da sparo. A ciò attendevano i suoi dipendenti. Per noi che viviamo due secoli dopo, e poiché le successive ed avverse vicende politiche poca eco proiettano sul suo nome, Angelo Mortati, il più grande benefattore di Spezzano, sembra che sia passato sulla terra come una meteora, invece visse tutti gli anni in cui il paese aveva bisogno della sua opera preziosa. Durante la divisione dei beni feudali fra i Comuni, il Mortati favorì l’assegnazione al paese di fondi ottimi ed estesi. Scrive il Nociti: "Egli che si trovava già segretario del Decurionato, seppe farsi scegliere a deputato del Comune per presiedere la ripartizione suddetta. L’amore del natio loco era poi favorito dalla legge, la quale voleva ripartiti quei beni in proporzione al numero degli abitanti di ciascun comune." (Cfr. Nociti, Platea, pagg. 52-53). In quel tempo Spezzano aveva una popolazione di oltre 2 mila abitanti, cioè superiore agli altri paesi dell’altipiano. Nato nel 1770 si trovava in Napoli nel 1789 per studi e per affari. Ma per aver espresso simpatia alle nuove idee della Rivoluzione francese, venne arrestato nel 1798 e tenuto in carcere parte del 1799, fino a quando fu processato e condannato all’esilio. Andò in Francia, si arruolò nell’armata napoleonica e raggiunse il grado di capitano. Nell’esercito vi rimase poco più di due anni. Indi ritornò a Spezzano. Il 3 ottobre del 1803 sposò una giovinetta avvenente delle migliori famiglie di Lungro, Maria Teresa Straticò. Gentile e distinta, indossava quasi sempre il costume nuziale, e per il fascino e la bellezza veniva chiamata: "zonja nuse", cioè la signora sposa. Da essa don Angelo ebbe sei figli, Caterina, Anna, Rosina, Maria, Costantino e Francesco. Nella storia di mezzo secolo dopo (1860) conosceremo Gennaro, il figlio di Costantino, un valoroso e dotto ufficiale di Garibaldi.» (Cfr. Alessandro Serra, Spezzano Albanese nelle vicende storiche sue e dell’Italia (1470 - 1945), Edizioni Trimograf, Spezzano Albanese 1987, pagg. 229-232).
  Oltre ai figli menzionati dal Serra, sono figli di Angelo Mortati (dottore in legge) e Maria Teresa Straticò anche Clelia Ortenzia, nata il 25 dicembre 1813, e Angelo Maria, nato il 3 agosto 1817, dopo la morte di suo padre, avvenuta il 27 maggio 1817. Da Angelo Maria, che nei successivi atti di Stato civile reca il solo nome Angelo, e Carmela Squillaci, nata il 1821, sua moglie, sono nati Maria Teresa, coniugata con Michele Barone (Rende 30/10/1835 - ?), Ortenzia (21/12/1865 - 6/6/1946), coniugata con Antonio Barone, e Luigi (22/4/1853 - 20/1/1915), da cui è nato Gennaro Ulisse (Buenos Aires, 17/6/1890 - Spezzano A., 1/9/1962), dal cui matrimonio con Rosina Liguori (14/4/1901 - 30/8/1985) sono nati Luigi (medico-chirurgo), Francesco (avvocato), Costantino (insegnante) e Angelo (farmacista). Invece dal figlio Costantino (1804 - 21/7/1837), coniugato con Rachele Frega (1810 - ?), oltre a Gennaro (25/5/1826 - 1/5/1890), menzionato dal Serra, troviamo i figli Letizia (1831 - 29/7/1837), Emilia Cleonice (1832 - ?), coniugata l’8 settembre 1858 con Don Giuseppe Antonio Maria Staffa (1793 - ?), agrimensore, e Francesco (1836 - ?), coniugato con Maria Giuseppa Tarsia (1853 - ?). Francesco Mortati e Susanna Chiurco, oltre ad Angelo (1770 - 27/5/1817), ebbero sette figlie: Marta (1769 - 21/12/1839), moglie di Andrea Tarsia, Caterina (1773 - 13/10/1836), moglie di Giovanni Andrea Candreva (1774 - ?), Rosa (1775 - 30/8/1825), moglie di Gennaro Bevacqua, Carmela (1781 - 28/8/1831), moglie di Giovanni Tarsia, Serafina (1784 - 5/4/1830), moglie di Andrea Mortati (1793 - 26/7/1843) di Bruno, Aurelia (1786 - ?), moglie di Gaetano Tarsia (1783 - ?), Maria Giuseppa (1803 - 23/10/1839), moglie di Francesco Staffa. Caterina Mortati e Giovanni Andrea Candreva ebbero quattro figli (per ritornare alla nota n. 14, clicca qui^): Lucrezia Marta Candreva (1793 - ?), moglie di Angelo Maria Tarsia (1791 - 19/12/1849), Mariangela, moglie di Domenico Minisci, Rosa (1812 - 24/10/1832), Francesco (4/9/1813 - 5/3/1872), medico e sindaco, marito di Rachele Tarsia (1822 - ?), con la quale ha avuto le figlie Letterina e Letizia. I coniugi Lucrezia Marta Candreva ed Angelo Maria Tarsia hanno avuto nove figli: Carolina (21/7/1813 - 25/1/1834), moglie di Francesco Ragusa, Pasquale (14/2/1815 - 3/10/1822), Francesco (20/2/1816 - 20/11/1872), marito di Maria Tarsia (2/5/1825 - 15/8/1856), Ferdinando (1/9/1817 - ?), Giuseppe (1820 o 1821 - 24/3/1826), Innocenza Rosina (29/9/1825 - ?), Pasquale (1826 - 2/12/1852), Maria Innocenza (18/12/1830 - 7/1/1831) e Giuseppe (1833 - 26/12/1855). I coniugi Francesco Tarsia e Maria Tarsia hanno avuto tre figli: Carolina (24/10/1846 - ?), moglie di Angelo Nociti (1/6/1837 - ?), Alessandro (2/5/1848 - ?) e Lucrezia (1854 - 15/11/1857). I coniugi Carolina Tarsia e Angelo Nociti hanno avuto sei figli: Domenico (28/9/1869 - 8/10/1869), Maria (1/10/1871 - 11/2/1928), moglie di Domenico Cacozza (5/2/1864 - 3/5/1931), Domenico Antonio (26/6/1874 - 12/5/1949), marito di Anna Maria Armentano (Mormanno, 13/5/1878 - Spezzano A., 7/6/1953), Francesco (27/1/1876 - 22/2/1952), vedovo di Angiolina Candreva e marito di Rosina Candreva, Rosina (22/4/1878 - 28/9/1962), moglie di Salvatore Brandi, e Giuseppe (1/1882 - 10/9/1882). I coniugi Domenico Antonio Nociti e Anna Maria Armentano hanno avuto otto figli: Carolina (25/5/1904 - 9/10/1971), moglie di Francesco Vattimo (31/10/1901 - 4/1/1975), Angelo (23/7/1906 - 9/2/1986), marito di Giulia Teresina Caputo (26/2/1916 - 26/2/2007), Maria Francesca (29/5/1908 - 4/2/1965), moglie di Paolo Cucci, Carmela Anita (13/4/1910 - 12/11/1961), moglie di Raffaele De Luca, Rosina (10/1/1913 - 12/8/1989), Luigina (22/8/1915 - 4/11/1948), Alessandro (26/4/1919 - 29/12/1949) e Giuseppina (2/12/1920 - 7/6/1938). I coniugi Carolina Nociti e Francesco Vattimo hanno avuto quattro figli: Chiara (19/1/1924 - 30/7/2012), moglie di Ovidio Mancioli, Vittorio Vincenzo (21/5/1927 - 30/12/1975), medico-chirurgo e sindaco, marito di Flora Carmela Bartolomeo, Angelo (28/4/1929 - 30/5/1943) e Angelo Giuseppe (19/3/1945), prof. associato di medicina nucleare, marito di Annalisa Avanzati. I coniugi Angelo Nociti e Giulia Teresina Caputo, miei genitori, hanno avuto quattro figli: Domenico (10/11/1947), ingegnere magistrale, Maria Carmela Antonietta (20/7/1949), matematico magistrale, Alessandro Aldo (10/1/1951), ex studente d’ingegneria, e Vincenzo (22/7/1953), imprenditore, marito di Maria Domenica Palmieri.
    «[2]^ Apprezzo del Regno di Napoli eseguito da Charles Leclerc, esistente presso il museo S. Martino di Napoli. Noi ne abbiamo visto una copia nella Biblioteca "De Gemmis" di Bari; in esso non è menzionata nemmeno la vicina colonia di Spezzano Albanese.»
    «[3]^ Zangari, Le Colonie Albanesi di Calabria, Napoli 1940, pagg. 60-65;
    [4]^ Tuttavia secondo il foglio 262 della Regia C. della Sommaria fasc. cit. i fuochi erano 74 e nel 1532 erano di più; vedi anche Giustiniani, Dizionario ragionato del regno di Napoli 1797-1816;».
    «[5]^ Apprezzo del Regno di Napoli eseguito da Charle Leclerck del 1517-21 esistente presso il Museo di S. Martino di Napoli e nella biblioteca De Gennaris» (n.d.a.: leggasi: De Gemmis) «di Bari. Vedi anche C. Scorza, op. cit. pag. 31.»
    «[6]^ Zangari, Le colonie albanesi di Calabria, 1940, pag. 116.»
    [7]^ «La quarta massiccia emigrazione di profughi albano-greci, provenienti dalla Morea - e precisamente dalle città di Corone, Modone, Nauplia, Patrasso, ebbe luogo nel 1534. La Morea era stata occupata dai Turchi già nel 1460; in seguito fu loro sottratta dai Veneziani, ma nel 1500 i Turchi la ripresero. Nel 1532 l’ammiraglio genovese Andrea Doria, alle dipendenze dell’Imperatore Carlo V, per vendicarsi dei Turchi, che avevano osato attaccare Vienna, dopo aver occupato l’Ungheria, occupò anche la Morea, dove si trovavano molti albanesi, trasferitisi dall’Albania sin dal sec. XII-XIII. Questi si unirono al Doria, giurandogli obbedienza. Ma allorché i Turchi, nel 1534, stavano per rioccupare la Morea, Carlo V li fece evacuare, a bordo di 200 navi, facendo vela, col consenso del Viceré di Napoli Don Pedro de Toledo, verso il Regno delle Due Sicilie.
  Molti di questi Albanesi si fermarono a Napoli, altri a Lipari, mentre la maggior parte preferirono stanziarsi nei vari paesi dell’Italia meridionale e insulare già abitati dai loro fratelli, scappati dall’Albania in precedenti emigrazioni. Tracce sicure dei Coronei si trovano non solo nei paesi albanesi di Calabria e Lucania, ma anche in Puglia ed in Sicilia. Ne fanno testo l’onomastica di questi paesi e la tradizione orale e scritta pervenuta fino a noi. (Cognomi greci: Chinigò, Marchianò, Stratigò, Papadà, Rodotà, ...; il paese di San Demetrio ricevette l’appellativo di “Corone”; Molti nobili di Calabria e Sicilia conservarono il titolo nobiliare di “Coronei”: Jeno dei Nobili Coronei, Rodotà dei Nobili Coronei, Camodeca dei Nobili Coronei, ecc. ...; la famosa canzone alla patria “O e bukura Moré”; l’espressione popolare “ështe e vjen ka Morea!”; queste sono delle prove). Furono Coronei anche quegli Albanesi guidati da Lazzaro Mathes, che in questa emigrazione fondarono o ripopolarono, in Lucania (Prov. di Potenza) i paesi Barile, Brindisi di Montagna, Maschito, Ginestra, S. Costantino Alb., S. Paolo Alb., S. Giorgio Lucano Mendullo; in provincia di Cosenza: Castroregio e Farneta; ...» (Cfr. Papàs Emanuele Giordano, Gli Arbëreshë: un popolo venuto dall’Oriente, Zëri i Arbëreshvet n. 12, 1979, anno VIII, pagg. 20 - 24).
    [8]^ Masci, Sulle origini, i costumi e lo stato attuale degli Albanesi nel Regno di Napoli, Napoli 1847, pagg. 77 e 78.
    «[9]^ CAPALBO FRANCESCO, Il tramonto del Patirion, (Messina 1921), 8.
    [10]^ CAPALBO, op. cit., 12; GRADILONE ALFREDO, Storia di Rossano, (Roma 1926), 205-206.»
    [11]^c^d^e^f Il numero di fuochi di Palazo tra il 1517 ed il 1521 potrebbe essere superiore a 11, potendo al massimo raggiungere 22 fuochi, per circa complessive 110 teste, visto che, specie nel giustizierato di Valle del Crati e Terra Giordana, corrispondente alla Calabria Citra senza il territorio di Catanzaro, dove la gente era più povera, nel 36% circa dei centri abitati si era diffusa l’abitudine di molti 'disperati', soprattutto tra i profughi, come quelli di questo piccolissimo villaggio, "di sottrarsi in parte a un pagamento per loro troppo gravoso, riunendosi in due famiglie a formare un solo fuoco", come si può constatare dal seguente passo i cui fatti, anche se di epoca precedente, danno l’idea di questo fenomeno: «Varrebbe assai meglio, a spiegare l’introduzione di quel nuovo sistema di computo, l’ipotesi che la povera gente, ora che, esentati dalla colletta i Religiosi con i loro beni, quasi più nessuno sfuggiva all’imposta, cercassero di sottrarsi in parte a un pagamento per loro troppo gravoso, riunendosi in due famiglie a formare un solo fuoco. Di ciò si ha un forte indizio nel fatto che, due anni appena dopo il principio del governo angioino, si constatava ufficialmente, come risulta da speciali cedole di tassazione (Cfr. MINIERI-RICCIO, Saggio di Cod. dipl., pp. 43 e segg.: "Cedula de focularibus que inveniuntur diminuta per collectionem factam de quaternis particularibus generalis subventionis ad quaternos de focularibus pro quibus subscripte terre et loca tenentur ad rationem de augustale uno pro quolibet foculare".), la diminuzione del numero di focolari, specie nel giustizierato di Valle del Crati e Terra Giordana, dove la gente era più povera; quivi lo strano fenomeno si avverava per ben 90 su 250 villaggi e città. Può darsi che da qualche luogo di pianura vi sia stata un’emigrazione verso le montagne; ma la più probabile ipotesi, a spiegare il fatto, resta quella che, in molti casi, si riunissero due famiglie in una, per ridurre quanto più possibile il numero dei fuochi.» (Cfr. Giuseppe Pardi, I registri angioini e la popolazione calabrese del 1276, in "Archivio storico per le provincie napoletane", XLVI (1921), pagg. 34-35).
    [12]^g^h Conca o terra di Conca è un toponimo che indica concavità del suolo di questa contrada, che, verosimilmente, è la contrada Covella, sita in questo tenimento Sagittae, nella parte sottostante l’attuale cimitero di Spezzano Albanese, in cui ancora oggi si trovano due sorgenti di acqua potabile, una con lo stesso nome di questa contrada, che in lingua italo-albanese suona kroi i Kuveles o, semplicemente, Kuvelë, e, ja, cioè fontana di Covella, che significa incavo (Cfr. Emanuele Giordano, FJALOR, Dizionario Arbëresh - Italiano, Vocabolario Italiano - Arbëresh, Seconda Edizione "il Coscile", Castrovillari (CS) 2000, pag. 218), in greco κύπελλο o κύπελο, che significa coppa, stante al indicare la conformità concava di questa contrada [nel comune di Tarsia (CS) c’è una contrada, la cui conformazione è concava, chiamata Copp’ ’u nigliu (Coppa du nigliu), cioè Coppa del nibbio], distante in linea d’aria dal Palatium Sti Antonii de Strada 4,35 Km e dal Santuario della Madonna delle Grazie, alla periferia est di Spezzano Albanese, 1,14 Km, e l’altra in prossimità del terreno di Staffa, denominata kroi i Stafs, cioè fontana di Staffa.
  Inoltre, si fa notare che Stragolia (contrada in agro di Spezzano Albanese), che deriva da Strada, Scribla, Stridula, Stribula, Stregola ed, infine, Stragola con l’aggiunta del suffisso -ía (ία) tipico dei toponimi, adiacente alla quale, dalla parte opposta a Sant’Antonio di Stridula, trovasi la contrada Covella, indica un tenimento dello stesso Sant’Antonio.
    [13]^ «Ma il più grande esodo di profughi dall’Albania, in varie ondate ebbe luogo dopo la morte dell’Eroe Nazionale Giorgio Kastriota Skanderbeg, ossia dal 1468 al 1506, allorché tutte le città e fortezze d’Albania caddero definitivamente sotto il do­minio turco. Allora molti albanesi, prevedendo l’occupazione totale della Patria e le ven­dette dei Turchi, seguirono l’esempio di quegli albanesi che si erano già stanziati prece­dentemente nell’Italia Meridionale. Partirono dai porti di Ragusa, Scutari e Alessio, imbarcati su navi veneziane, napoletane, albanesi e slave.
  A questa terza emigrazione pare si riferisca il famoso frammento di rapsodia: "Por 300.000 trima / iktin, çaitin detin, / se të mbajin besën" (Trecentomila giovani fuggirono, attraversarono il mare, per salvare la Fede). Anche se la cifra può sem­brare esagerata, fu senz’altro una emigrazione di massa. Il Papa Paolo II scriveva al­lora al Duca di Borgogna: "Le città d’Albania, che finora avevano resistito al furore dei Turchi, sono ormai cadute in loro potere. Tutti i popoli che abitano le coste dell’A­driatico orientale tremano all’aspetto di questo imminente pericolo! Gli Albanesi in parte sono uccisi dalla spada, altri sono condotti in misera schiavitù ... Dovunque non vedi che terrore, lutto, morte e schiavitù ... è lacrimevole contemplare le navi dei profughi che si riparano nei porti d’Italia e quelle povere famiglie ignude che, scacciate dalle loro abitazioni, stanno sedute sui lidi marini e che, stendendo le mani al cielo, fanno risuonare l’aria di lamenti in ignote favelle!".
  Quei profughi sbarcarono in buona parte nei porti della Pianura di Sibari, e inoltrandosi nell’interno, fondarono, nella provincia di Cosenza: S. Giorgio Albanese, Vaccarizzo Albanese» ... «Macchia Albanese» ... «Santa Sofia d’Epiro, Spezzano Albanese» (n.d.a.: nel 1521 Palazo), «Acquaformosa, Lungro, Firmo, S. Basile, Frascineto, Porcile (oggi Eianina), Civita, Plataci, S. Benedetto Ullano» ... «S. Martino di Finita, S. Giacomo, Cerzeto» ... «Mongrassano» ... «Santa Caterina Albanese, Falconara e Serra d’Aiello» (n.d.a.: leggasi: Serra di Leo, oggi rione di Mongrassano) [Cfr. Protopresbitero Emanuele Giordano, Gli Arbëreshë: un popolo venuto dall’Oriente, Zëri i Arbëreshvet n. 12, 1979, anno VIII, pagg. 20 - 24].
    [14]^i^j CASSIANI Ferdinando, Spezzano Albanese nella tradizione e nella storia (1471-1918), TIPO-EDITRICE BRUZIA, Catanzaro 1929, pag. 52. «Sul principio del Cinquecento soprattutto le Compagnie di Carità contribuirono molto al rinnovamento della vita cristiana, promuovendo la carità verso il prossimo e dando il loro attivo contributo nella fondazione di ospedali, orfanotrofi, soccorsi per i poveri» (Cfr. Daniela Bondielli, Elisa Carrara, Oriana Carella e Cecilia Poggetti, tutte dott.sse, Archivio Arcivescovile di Pisa. Guida ai Fondi, pag. 122).
    Ferdinando Cassiani, padre del più volte Ministro della Repubblica on. Gennaro Cassiani, è un mio lontano parente, essendo nipote, cioè figlio del figlio Gennaro di Ferdinando Cassiano, bracciale (bracciante o manovale), che sposò Vittoria (Maria) Nocito, sorella del mio trisnonno (Zavile) Domenico Nocito. Questi cognomi, con la 'o' finale diventeranno con la 'i' finale nella seconda metà del XIX sec. In quest’opera, nell’unica nota di pag. 104 è riportato che: «Gennaro Cassiani, il mio genitore da me teneramente amato, nacque in Spezzano Albanese nel 1835, morì nell’aprile del 1925 nella tarda età di novant’anni compiuti. Studiò matematiche nell’Università napoletana, fu incaricato della operazioni demaniali e collaborò efficacemente con Carlo Pancaro nell’opera sua maggiore in tutti i comuni della Provincia, lasciando ovunque rinomanza di grande onestà. Resse in Spezzano e poi in Cosenza l’Ufficio di Espropriazione nella costruzione del tronco ferroviario dal Capoluogo a Sibari. Fu ufficiale di Garibaldi e combatté da valoroso nella giornata del 1° ottobre 1860, sotto le mura di Capua.
  L’8 giugno del 1904, Orazio Rinaldi -- ricordando, in una lettera al suo vecchio amico, l’episodio del suo arresto -- così scriveva a Gennaro Cassiani: " Tu mi confortasti con affettuose premure nel 1856, quando provvedesti a far liberare il buon padre mio, che sempre, ahimè, rimpiango, con mio fratello; mentre i Borboni mi seppellivano nelle buiose di Santa Maria Apparente; e lo ricordo sempre compreso da somma gratitudine! "» In un’altra nota alla pag. 121 seguente si riporta che: «Maria Teresa Nociti, la veneranda e compianta madre mia, nacque nel 1848 e morì nel Natale del 1922. Era figlia di Luigi Nociti, il Carbonaro del ’21, nipote quindi di D. Paolo Nociti, l’Arciprete Santo, e di Giuseppe Maria Nociti, l’Accademico della Pontaniana - sorella di Antonio Nociti, l’esiliato di Malta, l’eroe purissimo che entrò il primo a Bezzecca nella guerra del ’66.» A pag. 55 della stessa opera, invece, nel riportare "I primi che si unirono e formarono nel 1835 la congregazione laicale di Costantinopoli", di suo nonno, che lo include nell’elenco con la dicitura di "Ferdinando Cassiani", nessuna nota vi compare a ricordo di questo valoroso "bracciale", corrispondente all’attuale bracciante o manovale, che con pochi mezzi in quei tempi difficili è stato capace, assieme a sua moglie, figlia di un colono, Angelo Nocito, mio quadrisnonno (quartavolo), di mantenere suo figlio Gennaro quale studente di "matematiche nell’Università napoletana".
  Dai coniugi Vittoria Maria Nocito (30/8/1805 - ?), figlia di Angelo Nocito (1775 - 23/9/1833) e Maria Rosa Cucci (1779 -13/6/1837), e Ferdinando Cassiano (1803 - ?) sono nati: Cintia Cassiano (8/6/1831 - ?), moglie di Giovanni Andrea Nociti (21/2/1836 - ?), Maria Teresa Cassiano (8/6/1831 - 11/7/1831), Lucrezia (1833 - ?), moglie di Vincenzo Maria De Rosis (1829 - ?), Gennaro Cassiano (23/3/1835 - 4/1925), marito di Maria Teresa Nociti (3/5/1848 - 21/12/1922) e Maria Teresa (1840 - ?), moglie di Andrea Caruso (1844 - ?). Dai coniugi Cintia Cassiano e Giovanni Andrea Nociti sono nati: Emilio, Agostino, Maria Nociti (18/6/1870 - 12/11/1937), moglie di Alfonso Nociti (6/2/1855 - 9/1/1928), fratello di suo suocero. Dai coniugi Maria Nociti e Alfonso Nociti sono nati: Francesco (Limeira, 23/3/1892 - Spezzano A., 10/12/1933), capitano d’aviazione decorato con 2 medaglie d’argento al valor militare, Giovanni Andrea, Arturo (San Paolo, ? - Spezzano A., 3/6/1921), Rosalinda (Limeira, 14/8/1897 - Spezzano A., 23-2-1951), moglie di Rocco Solano, Elisa (Limeira, 4/9/1899 - Spezzano A., 2/6/1958), moglie di Pasquale Attanasio Diodati. Dai coniugi Gennaro Cassiano/i e Maria Teresa Nociti sono nati: Ferdinando (12/2/1878 - 5/2/1835), marito di Teresa Arabia (Cosenza, 18/2/1882 - Spezzano A., 23/5/1960), ed Erminia (? - 21/12/1922). Dai coniugi Ferdinando Cassiani e Teresa Arabia sono nati: Gennaro (Spezzano A., 13/9/1903 - Roma, 14/7/1978), più volte parlamentare, sottosegretario e ministro della Repubblica, marito di Maria Stancati nata a Cosenza, Ambrogio (22/4/1906 - 18/10/1980), marito di Maria Cucci, Maria (1908 - ?), moglie di [?] Pugliese, Ada (1910 - ?), moglie di Agostino Fiorentino. Dai coniugi Angelo Nocito e Maria Rosa Cucci, oltre a Vittoria Maria, moglie, come detto, di Ferdinando Cassiano, sono nati: Domenico (22/11/1801 - ?), Lucrezia Maria (18/2/1803 - ?), moglie di Pietro Minisci (1801 - ?), condannato all’ergastolo prima del 21 febbraio 1863 e, perciò, forse vittima innocente della repressione antibrigantaggio (Cfr. Comune di Spezzano Albanese (CS), Stato Civile, Atto di matrimonio del 21 febbraio 1863 tra Angelo Maria Minisci e Rosina Fazio), Zavile Domenico (23/9/1808 - 22/4/1858), marito di Marta Mortati (1809 - 19/12/1883), Veneranda (23/9/1808 - ?), moglie di Salvatore Mortati (14/3/1815 - ?), e Carmela (16/2/1812 - ?). Dai coniugi Zavile Domenico Nociti e Marta Mortati sono nati: Angelo (1/6/1937 - ?), marito di Carolina Tarsia (24/10/1846 - ?), Giovanni Andrea (3/10/1840 - 26/8/1922), vedovo di Anna Maria Greco (1844 - ?), Filomena Liguori (1844 - ?) e Lorenza Concistré, marito di Lucrezia Luci, Maria Rosa (1842 - 3/9/1845), Letizia (28/3/1845 - 20/7/1927), moglie di Pasquale Squillaci, e Giuseppe (23/2/1851 - 25/1/1924). Dai coniugi Angelo Nociti e Carolina Tarsia sono nati: Domenico (28/9/1869 - 8/10/1869), Maria (1/10/1871 - 11/2/1928), moglie di Domenico Cacozza (5/2/1864 - 3/5/1931), Domenico Antonio (26/6/1874 - 12/5/1949), marito di Anna Maria Armentano (Mormanno, 13/5/1878 - Spezzano A., 7/6/1953), Francesco (27/1/1876 - 22/2/1952), vedovo di Angiolina Candreva e marito di Rosina Candreva, Rosina (22/4/1878 - 28/9/1962), moglie di Salvatore Brandi, e Giuseppe (1/1882 - 10/9/1882). I coniugi Domenico Antonio Nociti e Anna Maria Armentano hanno avuto otto figli: Carolina (25/5/1904 - 9/10/1971), moglie di Francesco Vattimo (31/10/1901 - 4/1/1975), Angelo (23/7/1906 - 9/2/1986), marito di Giulia Teresina Caputo (26/2/1916 - 26/2/2007), Maria Francesca (29/5/1908 - 4/2/1965), moglie di Paolo Cucci, Carmela Anita (13/4/1910 - 12/11/1961), moglie di Raffaele De Luca, Rosina (10/1/1913 - 12/8/1989), Luigina (22/8/1915 - 4/11/1948), Alessandro (26/4/1919 - 29/12/1949) e Giuseppina (2/12/1920 - 7/6/1938). I coniugi Carolina Nociti e Francesco Vattimo hanno avuto quattro figli: Chiara (19/1/1924 - 30/7/2012), moglie di Ovidio Mancioli, Vittorio Vincenzo (21/5/1927 - 30/12/1975), medico-chirurgo e sindaco, marito di Flora Carmela Bartolomeo, Angelo (28/4/1929 - 30/5/1943) e Angelo Giuseppe (19/3/1945), prof. associato di medicina nucleare, marito di Annalisa Avanzati. I coniugi Angelo Nociti e Giulia Teresina Caputo, miei genitori, hanno avuto quattro figli: Domenico (10/11/1947), ingegnere magistrale, Maria Carmela Antonietta (20/7/1949), matematico magistrale, Alessandro Aldo (10/1/1951), ex studente d’ingegneria, e Vincenzo (22/7/1953), imprenditore, marito di Maria Domenica Palmieri.
  Anche Antonio Nociti è un mio lontano parente, dato che: Francesco Mortati e Susanna Chiurco, oltre ad Angelo (1770 - 27/5/1817), ebbero sette figlie: Marta (1769 - 21/12/1839), moglie di Andrea Tarsia, Caterina (1773 - 13/10/1836), moglie di Giovanni Andrea Candreva (1774 - ?), Rosa (1775 - 30/8/1825), moglie di Gennaro Bevacqua, Carmela (1781 - 28/8/1831), moglie di Giovanni Tarsia, Serafina (1784 - 5/4/1830), moglie di Andrea Mortati (1793 - 26/7/1843) di Bruno, Aurelia (1786 - ?), moglie di Gaetano Tarsia (1783 - ?), Maria Giuseppa (1803 - 23/10/1839), moglie di Francesco Staffa. Caterina Mortati e Giovanni Andrea Candreva ebbero quattro figli: (continua alla nota n. 1, cliccando qui). Invece da Rosa Mortati e Gennaro Bevacqua nacquero i seguenti figli: Maria Vincenza (1808 - ?), moglie di Vincenzo Nemoianni (1800 - ?), Maria Lucrezia (1810 - ?), moglie di Luigi Nociti (1801 - ?), Maria Angela (4/6/1817 - ?) e Angelo Maria, marito di Rosina Masci. Maria Lucrezia Bevacqua e Luigi Nociti ebbero i seguenti figli: mag. Antonio (1830 - 24/12/1879), Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia, Anna (1832 - ?), moglie di Giuseppe Angelo Gozzolini Nociti (10/1831 - 12/1899), Giulia (1835 - ?), moglie di Alfonso Cucci (1831 - ?), e Maria Teresa (3/5/1848 - 21/12/1922), moglie di Gennaro Cassiano (23/3/1835 - 4/1925), che, come detto in precedenza, diventerà Cassiani.
    [15]^ CASSIANI Ferdinando, op. cit., pag. 31.
    [16]^ CASSIANI Ferdinando, op. cit., pag. 31.
    [17]^ Via Ellena, rinominata Via degli Elleni, non è più quella dell’epoca del Cassiani, che oggi ha assunto il nome di Via Don Nicola Basta, in onore e alla memoria dell’ultimo arciprete di rito greco-bizantino vittima inerme della prepotenza del clero di quell’epoca infausta, che ha introdotto frettolosamente il rito latino subito dopo la sua morte misteriosa, bensì quella che pressappoco percorre la parte iniziale del vallone che in lingua arbëresh è chiamato përroi i (N)Xhullu Mes, oggi seppellito sotto questa strada, a cui poteva essere attribuito il nome di questo arciprete, alfine di mantenere nel rione di Costantinopoli i nomi delle strade indicanti l’emigrazione dei profughi che sono venuti a ripopolare questo primo rione di Spezzano.
    [18]^ Nella "eclesia S.ti Joannis" "de jure patronatus de Barbato" nell’aprile del 1649 vi fu una sepoltura. Nel 1653 fu sepolto nella stessa chiesa don Teodoro Barbato, nato nel 1597, ed il 29/1/1654 fu sepolto Basilio Barbato, nato nel 1608 (forse l’8 novembre), entrambi figli del fu don Martino, mentre una loro nipote lasciò alcuni ducati al rispettivo Santo per messe "pro anima sua". Verosimilmente furono sepolti in precedenza anche don Martino, sua moglie donna Viera Lanza ed altri loro familiari. Nel ’700 questa chiesa risultava in possesso dei Mortati e nell’800 di Giovambattista Cucci (19/7/1867 - 1928), figlio di Alfonso (1831 - ?) e Giulia Nociti (1835 - ?), figlia quest’ultima di Luigi (1801 - ?) e Maria Lucrezia Bevacqua (1810 - ?), la quale è figlia di Gennaro e Rosa Mortati (1775 - 30/8/1825), sorella di Angelo (1770 - 27/5/1817), dottore in legge ed ufficiale nell’esercito napoleonico, ai cui fabbricati la medesima trovavasi addossata.
    [19]^ Via dei Coronei nella toponomastica spezzanese ora è la prima traversa a sinistra, lunga 50 m circa, di Via San Giovanni, a partire dall’ex Via dei Coronei, lunga 200 m circa, rinominata, come detto nel testo, Via Antonio Lupinaro. Già Via Sole, poi Via Don Luigi Sturzo (prima Struzzo), infine Via dei Coronei è parallela e alla destra dell’ultimo tratto dell’odierna Via Antonio Lupinaro, che inizia da Piazza Giovanni XXXIII, prospiciente la chiesa di San Pietro e Paolo.
    «[20]^k^l Antonino Pio, imperatore romano dal 138 al 161 d.C., scrisse il famoso "Itinerarium Provinciarum". Vedi anche Barrio: Tomae Aceti Academici Cosentini et Vaticanae, De Antiquitate et Situ Calabriae, libros quinque, Romae, S. Michele ad Ripam, 1737, pag. 377. Traduzione del passo riportato: "… Dopo Tarsia scorre il fiume Sineto. Più in là è l’accampamento di Laurento posto in un luogo alto e salubre; molto lontano da esso scorre il fiume Sibari, nelle cui acque sfocia il fiume Esaro, che scorre sotto l’accampamento. Un Monte lo sovrasta, dal quale si vede la regione circostante".»
    «[21]^ Barrio, De Antiquitate et situ Calabriae, Lib. V, Romae S. Michele ad Ripam 1737, pag. 377; Scorza, Spigolature su S. Lorenzo del Vallo, pag. 16.»
    «[22(b)]^ Il fiume Isauro. Isaurus o Isarus. Ora Esare. In Calabria ci sono due fiumi di nome Esare, uno che scorreva attraverso la città di Crotone, l’altro questo: tuttavia né l’uno né l’altro trascina abbastanza di pietre, sebbene Ovidio, parlando dei Crotoniati, dica " le onde dell’Esare che trascinano pietre ".»
    [23]^ Besedia. Bisedia o Besediae. In passato attestata Bescia da Stefano Bizantino, ora Bisignano.
    «[24]^ Tarsia. Dal greco ταράσσω, rinnovo, o τέρσω, dissecco. Forse ταυρασία, Taurasia, onde Tarsia. V. Luc. Holsten. Nelle note a Steph., alla voce ταυρασία. Comunque sia, sotto il Normanno Beomondo, comes di Tarsia nel 1156, come dice Summont., lib. 2, cap. 1, il nome di Tarsia crebbe, ma è incerto se per la cittadella o se per il nome di famiglia. Di qui fu Guglielmo, della famiglia Agostiniana, celebre per santità e miracoli. Nicol. Crus., par. 3.; Giovanni Ruffo, molto caro al re; scrisse de equorum natura, il quale manoscritto si conserva in Napoli nella biblioteca di S. Giovanni a Carbonara. MS. Gualt.; Nicola Tortomano, espertissimo della musica; pubblicò un libro sull’argomento, in Napoli, 1622. MS. Gualt.; Marco Aurelio Severino, decoro e ornamento della repubblica delle lettere; nacque il 2 novembre 1580. Adolescente, impadronitosi dell’una e dell’altra lingua e della giurisprudenza, emulando, il Budeo, scrisse Commentari alle Pandette; uditore di Campanella, si applicò alla filosofia di Telesio e tanto fece progressi nella matematica e nella disciplina, che continuamente letterati, anche oltremontani, si recavano a Napoli per visitarlo, non diversamente da come leggiamo che alcuni uomini famosi, dagli ultimi territori delle Spagne e, delle Gallie, si recarono da Tito Livio che grondava del latte dell’eloquenza; e quelli che Roma non aveva attirato per essere ammirata, mosse la fama di un solo uomo, come dice S. Girolamo scrivendo a Paolino. Questo elogio si adatta mirabilmente a Severino; anche alcuni di essi, interrogati da Urbano VIII, Sommo Pontefice, su che cosa di straordinario loro era toccato di vedere in Napoli, risposero: " Severino ", già allora noto allo stesso Pontefice e all’Europa. Fu congiunto da somma familiarità a Tommaso Cornelio, Stelliola, Alfonso Borellio, e a tutti gli altri uomini dottissimi. Tuttavia non poté schivare l’invidia dei maldicenti. E infine morì, mentre in Napoli infuriava la peste, nel mese di Luglio del 1656. Scrisse e pubblicò molte opere. V. Laure. Cross., Tom. Cornea., Top., Nicol., Vanderù., Greg. Calore. E altri. Esiste in Tarsia una celeberrima biblioteca, che il principe di quel luogo si procurò non risparmiando alcuna spesa.»
    «[25a]^ Caprasae. Vi sono alcuni che credono che Caprasi sia la cittadella che chiamiamo Canicella
    [26]^ CASSIANI Ferdinando, o.c., pagg. 104 e 109.
  Il sottoscritto è lontano parente di Giuseppe Marchianò, dato che abbiamo in comune i miei quintavoli, i coniugi Pasquale Tarsia (? - 13/11/1799) e Innocenza Elmo (1772 - 23/2/1823), da cui sono nati: Maria Rosa (1789 - 19/5/1819), moglie di Giuseppe Marchianò, Angelo Maria (1791 - 19/12/1849), marito di Lucrezia Marta Candreva (1793 - ?), e Lucrezia (1798 - 22/7/1837), moglie di Michelangelo Mortati. Dai coniugi Maria Rosa Tarsia e Giuseppe Marchianò è nato: Nicola (1807 - ?), marito di Mariangela Chiurco (1805 - ?). Dai coniugi Nicola Marchianò e Mariangela Chiurco sono nati: Tiberio Giuseppe (8/1/1830 - 7/4/1902), di cui si è trattato in precedenza, e Domenico Carlo Aristide (27/11/1831 - ?), marito di Mariangela Scura. Dai coniugi Domenico Carlo Aristide Marchianò e Mariangela Scura è nato: Evaristo Nicola (17/5/1874 - 17/11/1960), farmacista, marito di Rachele Forte (1880 - ?). Dai coniugi Evaristo Nicola Marchianò e Rachele Forte è nato: Domenico (4/3/1905 - 6/2/1958), geometra. I coniugi Angelo Maria Tarsia, fratello, come visto, di Maria Rosa, e Lucrezia Marta Candreva hanno avuto nove figli: Carolina (21/7/1813 - 25/1/1834), moglie di Francesco Ragusa, Pasquale (14/2/1815 - 3/10/1822), Francesco (20/2/1816 - 20/11/1872), marito di Maria Tarsia (2/5/1825 - 15/8/1856), Ferdinando (1/9/1817 - ?), Giuseppe (1820 o 1821 - 24/3/1826), Innocenza Rosina (29/9/1825 - ?), Pasquale (1826 - 2/12/1852), Maria Innocenza (18/12/1830 - 7/1/1831) e Giuseppe (1833 - 26/12/1855). I coniugi Francesco Tarsia e Maria Tarsia hanno avuto tre figli: Carolina (24/10/1846 - ?), moglie di Angelo Nociti (1/6/1837 - ?), Alessandro (2/5/1848 - ?) e Lucrezia (1854 - 15/11/1857). I coniugi Carolina Tarsia e Angelo Nociti hanno avuto sei figli: Domenico (28/9/1869 - 8/10/1869), Maria (1/10/1871 - 11/2/1928), moglie di Domenico Cacozza (5/2/1864 - 3/5/1931), Domenico Antonio (26/6/1874 - 12/5/1949), marito di Anna Maria Armentano (Mormanno, 13/5/1878 - Spezzano A., 7/6/1953), Francesco (27/1/1876 - 22/2/1952), vedovo di Angiolina Candreva e marito di Rosina Candreva, Rosina (22/4/1878 - 28/9/1962), moglie di Salvatore Brandi, e Giuseppe (1/1882 - 10/9/1882). I coniugi Domenico Antonio Nociti e Anna Maria Armentano hanno avuto otto figli: Carolina (25/5/1904 - 9/10/1971), moglie di Francesco Vattimo (31/10/1901 - 4/1/1975), Angelo (23/7/1906 - 9/2/1986), marito di Giulia Teresina Caputo (26/2/1916 - 26/2/2007), Maria Francesca (29/5/1908 - 4/2/1965), moglie di Paolo Cucci, Carmela Anita (13/4/1910 - 12/11/1961), moglie di Raffaele De Luca, Rosina (10/1/1913 - 12/8/1989), Luigina (22/8/1915 - 4/11/1948), Alessandro (26/4/1919 - 29/12/1949) e Giuseppina (2/12/1920 - 7/6/1938). I coniugi Carolina Nociti e Francesco Vattimo hanno avuto quattro figli: Chiara (19/1/1924 - 30/7/2012), moglie di Ovidio Mancioli, Vittorio Vincenzo (21/5/1927 - 30/12/1975), medico-chirurgo e sindaco, marito di Flora Carmela Bartolomeo, Angelo (28/4/1929 - 30/5/1943) e Angelo Giuseppe (19/3/1945), prof. Associato di medicina nucleare, marito di Annalisa Avanzati. I coniugi Angelo Nociti e Giulia Teresina Caputo, miei genitori, hanno avuto quattro figli: Domenico (10/11/1947), ingegnere magistrale, Maria Carmela Antonietta (20/7/1949), matematico magistrale, Alessandro Aldo (10/1/1951), ex studente d’ingegneria, e Vincenzo (22/7/1953), imprenditore, marito di Maria Domenica Palmieri.

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