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sabato 26 settembre 2009

Il mosaico magico della basilica paleocristiana illiro-albanese di ϚϚϚ Mesapliku ϚϚϚ


«"O frati," dissi,» (parla Ulisse) «".....
non    vogliate    negar     l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate    la    vostra     semenza:
fatti  non  foste  a  viver  come   bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".»
(Dante, Inferno, XXVI, 112 - 120)



  "῾Ѧ ΠѦϘ KE ’ѦϚ" dall’albanese della mia Spezzano letteralmente si traduce: "Mangi poco, hai tanto!", pronunciando la lettera "Ϛ" come quella della parola italiana "Chiesa" oppure "Chiave". Inoltre, la terza lettera della seconda parola non è "K", bensì la lettera greca arcaica "Ϙ" (qoppa, caduta in disuso nel greco ellenistico), da cui, però, derivò la lettera latina "Q".
ing. Domenico Nociti
19 agosto 2009 0.48
  La su riportata immagine fotografica del mosaico della basilica di Mesaplik è stata importata dalla voce "Visita tematica (Periodo tarda antichità, oggetto archeologico n. 7)" del Museo Storico Nazionale di Tirana (Progetto Cooperation @nd Cultural Heritage Net.it) (art. 90, comma 1, n. 3, e comma 2, legge n. 633 del 22-4-1941).
  Pronunciando la lettera "Ϛ" come quella della parola italiana "Chiesa" oppure "Chiave", si può effettuare una lettura anche in verticale: "῾ѦΠ
KѦ ῾Ѧ ϘEϚ", che dall’albanese della mia Spezzano letteralmente si traduce: "Apri bue, mangi troppo!", ricordando sempre che la lettera greca arcaica "Ϙ" (qoppa), caduta in disuso nel greco ellenistico, si pronuncia come la lettera "K".
ing. Domenico Nociti
29 agosto 2009 3.51
  "῾Ѧ ΠѦϘ KE ’ѦϚ" dall’albanese della mia Spezzano letteralmente si traduce: "Mangi poco, hai tanto!", pronunciando la lettera "Ϛ" come "CH" della parola italiana "CHIESA" oppure "CHIAVE". Inoltre, la terza lettera della seconda parola non è "K", bensì la lettera greca arcaica "Ϙ" (qoppa, caduta in disuso nel greco ellenistico), da cui, però, derivò la lettera latina "Q"; mentre la seconda lettera della quarta parola, "Ϛ" (stigma), è una lettera scomparsa dell’alfabeto greco, che esprimeva foneticamente il suono /st/ in alcuni alfabeti greci arcaici, ma dal 403 a.C. nell’alfabeto della koinè (di ispirazione ionico-attica) il segno fu usato solo come simbolo del numero 6. Sul significato si può dire che la frase sembra consigliare di risparmiare mangiando con moderazione.

  Da quando esposto si può affermare di trovarci di fronte ad un’espressione in lingua albanese scritta con i caratteri dell’alfabeto greco. Siccome la basilica di Mesaplik risale alla metà del IV secolo, si deve ritenere che l’albanese di questo periodo usava l’alfabeto greco per la sua scrittura. Come nell’albanese attuale è stata assunta la lettera dell’alfabeto latino "Q"[1]a per scrivere il suono del digramma "CH" della parola italiana "CHIESA" oppure "CHIAVE", non essendoci nell’alfabeto greco lettere per scrivere lo stesso fonema, si deve ritenere che all’epoca sia stata scelta proprio una lettera scomparsa nella lingua greca, ma in uso per i numeri, cioè la lettera "Ϛ", per scrivere questo suono consonantico; così come avvenne nell’alfabeto greco arcaico, che deriva dall’alfabeto consonantico fenicio, di cui alcune consonanti, che non avevano più corrispondenza di suono nel greco arcaico, sono state utilizzate nell’alfabeto di quest’ultima lingua per rappresentare le vocali [ved. l’immagine fotografica riportata a fianco, contenente la variante occidentale dell’alfabeto greco arcaico, la cui sesta lettera della prima riga arcuata è proprio "Ϛ" (stigma) e che è stato dipinto sul ventre di una coppa attica a figure nere di ceramica, custodita presso il Museo Archeologico Nazionale di Atene. Autore foto: Marsyas (2007), il cui file è licenziato in base ai termini della licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0 Unported].
  Quando sostenuto ci permette di effettuare anche una lettura in verticale, considerando, invece delle quattro righe precedenti, le tre colonne, essendo lo scritto approssimativamente a forma di matrice rettangolare: "῾ѦΠ KѦ ῾Ѧ ϘEϚ", che sempre dall’albanese della mia Spezzano letteralmente si traduce: "Apri bue, mangi troppo!", ricordando sempre che la lettera greca arcaica "Ϙ" (qoppa), caduta in disuso nel greco ellenistico, si pronuncia come la lettera "K". Se si ha presente che dopo essere stato ucciso, il bue viene aperto dai sottostanti torace ed addome, prima di essere fatto a pezzi, la frase deve per forza di cose significare che con un bue macellato si mangia in abbondanza (l’immagine fotografica a fianco di Marco Di Lauro mostra la vendita di carne bovina a Gadabedji in Niger).
  Che si tratti dell’alfabeto greco si capisce anche dal fatto che le parole che iniziano con vocali vengono aspirate senza essere precedute dalla lettera "H", mentre la barretta, che è stata apposta sulla lettera "’Ѧ" del quarto rigo, denota la presenza dello "spirito dolce" che indica l’assenza di tale fonema.
  L’ultimo aspetto da risolvere è l’uso delle lettere "K" e "Ϙ" per scrivere lo stesso fonema. La cosa, per ora, non desta alcuna preoccupazione se si considera che il latino più arcaico aveva tre lettere per rappresentare il suono [k]. La K veniva normalmente usata prima della Ѧ, la C prima di E ed I e la Q prima di O ed V (U). Addirittura, in questo latino, la lettera C, per conservazione grafica arcaica, si pronunciava anche G, come nel caso di Gaius, che aveva l’abbreviazione epigrafica "C.".
ing. Domenico Nociti
9 settembre 2009 4.05
  Fermo restando quanto sostenuto e chiarito nel commento del 9 settembre 2009 4.05, sul significato di "῾Ѧ ΠѦϘ KE ’ѦϚ" e di "῾ѦΠ KѦ ῾Ѧ ϘEϚ" (scritte, come esposto nel commento medesimo, con i caratteri dell’alfabeto greco), che in caratteri latini, rispettivamente, assumono la forma: "HA PAK KE AQ" e "HAP KA HA KEQ[2]" e che dall’albanese della mia Spezzano letteralmente si traducono, anteponendo le ultime due parole della prima frase, rispettivamente: "Hai tanto, mangi poco!" e "Apri bue, mangi troppo!", si può affermare quanto segue. Nel mosaico della basilica di Mesaplik vi sono rappresentati cinque settori trapezoidali, due dei quali contenenti ciascuno una coppa con tre pere, mentre altri due una coppia di pesci ciascuno e l’ultimo un pesce soltanto. "Hai tanto" si riferisce a questi prodotti dell’agricoltura e della pesca. Il territorio della regione in cui si trova Mesaplik, prevalentemente montuoso e con un sistema idrogeologico di superficie a carattere torrentizio, è poco adatto all’agricoltura e alla pesca fluviale e lacustre, mentre il mare prospiciente la costa della stessa regione (Adriatico e Canale d’Otranto), con fondali molto bassi ed acque abbastanza tiepide e, quindi, scarse di plancton, è poco pescoso, in relazione anche alla pesca dell’epoca in osservazione, in cui sicuramente la si effettuava con piccole imbarcazioni e piccole reti rudimentali; conseguentemente "mangi poco!" Dedicandosi, invece, all’allevamento, in particolare bovino, più adatto al territorio della detta regione ed a cui si riferisce "Apri bue", che può avere sia il significato più immediato di mandare o menare il bue all’aperto (per il pascolo), sia quello meno immediato riportato nel commento del 9 settembre 2009 4.05, "mangi troppo!" o, meglio, "mangi abbondantemente!"
  Per quanto riguarda il personaggio del mosaico de quo, coerentemente con il significato della relativa iscrizione, non essendoci per ora altri indizi, tranne quelli del particolare berretto e del volto, entrambi sicuramente di un benestante, escludendo perciò che possa trattarsi di uno che "mangi poco", si può ritenere che rappresenti simbolicamente un robusto giovane allevatore di bestiame, in particolare di bovini.
ing. Domenico Nociti
19 settembre 2009 0.26
  Mi preme di far notare altri due particolari del mosaico della basilica di Mesaplik.
  Nel mosaico della basilica di Mesaplik qui riportato (la terza parte di sinistra dell’intero mosaico della navata settentrionale) vi è rappresentata della frutta in due coppe, contenenti tre pere ciascuna, e del pesce. A prima vista non si notano altri prodotti alimentari, tanto è vero che lo stesso atteggiamento hanno assunto tutti gli esperti che hanno trattato la questione, dato che gli stessi non ne citano altri. La cosa, però, mi ha lasciato molto perplesso, poiché tra i prodotti dell’agricoltura ivi rappresentati vi compare soltanto la frutta, mentre non vi appare il grano, che è il prodotto agricolo più rappresentativo. In un primo momento mi son detto che in un territorio prevalentemente montuoso, come quello della regione presa in esame, prevaleva la frutta sul grano ed ho chiuso e postato il commento. Poi, però, osservando più attentamente il mosaico, ho notato che nel ottagono approssimativamente regolare che non era stato preso in esame vi è rappresentata una figura circolare, il cui cerchio interno con due file di tessere, aventi al centro un altra tessera, di color marrone (in parte chiaro ed in parte scuro) è circondato da una corona circolare con due file di tessere di colore grigio scuro, seguita da un’altra con cinque file di tessere di colore ecrù, che a sua volta è circondata da una con due file di tessere di nuovo grigio scuro, seguita da un’altra con due file di tessere di colore ecrù, il tutto circondato da un cordone attorcigliato (assumente approssimativamente la forma toroidale con le spire complanari) con tre file, con all’interno altre due coppie di file, di tessere, ciascuna avente un colore diverso ed uguale a quelli sopra indicati, che mi ha fatto pensare alla pasta ravvolta (riavvolta), cioè la torta. Le corone circolari evidenziano la stratificazione cilindrica di cui è composta la torta. Quello che sembrava mancare, cioè il grano, è comparso sotto forma di torta. Si potrebbe ritenere che, essendo più difficoltoso rappresentare a mosaico chicchi o spighe di grano per la loro piccola dimensione, questa rappresentazione è stata sostituita con quella della torta, meno difficoltosa da realizzare. Invece, siccome lo scritto del mosaico de quo contiene il verbo "mangiare", per coerenza, in questa rappresentazione a mosaico al posto della spiga o dei chicchi di grano è stata preferita la torta.
  Il secondo particolare riguarda la disposizione delle lettere greche dello scritto, approssimativamente disposte a forma di matrice rettangolare. La matrice è stata leggermente ristretta in modo simmetrico nelle ultime due righe, non solo per avere in ciascuna di esse un’unica parola formata con le lettere della prima e dell’ultima colonna, ma anche, come si vedrà in seguito, per un altro motivo.

  Si riporta l’immagine fotografica sovrastante dello statere d’argento emesso dall’alleanza di ϘPOTON e ϺYBAPIϺ (dove "Ϻ" è la lettera greca arcaica "San"), antiche colonie achee in Magna Grecia, con al diritto tripode delfico [leg. ϘPO] ed al rovescio toro retrospiciente incuso [leg. ] di 8,04 g, coniata tra il 510 e il 500 a.C., importata dal sito http://www.wildwinds.com/coins/greece/bruttium/kroton/t.html => SNGANS 873 [Re-used by permission of Freeman & Sear (www.freemanandsear.com) and Harlan J Berk (www.harlanjberk.com)], in cui con molta chiarezza è riportata la scritta "ϘPO" e da cui si può constatare con molta evidenza come la terza lettera del secondo rigo del mosaico è simile alla lettera "Ϙ"[3] di tale moneta, la cui origine si fa risalire alla lettera fenicia qoph, che significa "cruna d’ago", e molto diversa dalla lettera "P", che le sta affianco. Così questa lettera alfabetica greco-arcaica, il cui nome fenicio significa cruna d’ago e che è anche l’immagine di questa cruna, la si ritrova nei vangeli sinottici, come si può constatare nel secondo dei due versetti seguenti: «23Gesù allora disse ai suoi discepoli: "In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. 24Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli"» (Matteo 19:23÷24, Liber Liber; ved. anche: Marco 10:24÷25 e Luca 18:24÷25, Liber Liber).
  Ritornando alla torta rappresentata nella figura ottagonale del mosaico delle rovine della basilica paleocristiana di Mesaplik [località del comune di Brataj nel distretto di Valona, distante circa 37 miglia (romane) da Apollonia, da cui partiva uno dei due tratti iniziali a forma di Δ della Via Egnatia (o Via Ignazia), rilevante 'medium' di diffusione del Cristianesimo, costruita a partire dal 146 a.C. su ordine del Proconsole di Macedonia Gaio Ignazio e che, in prosecuzione della Via Appia, dopo il canale d’Otranto, collegava dall’11 maggio del 330 la vecchia e la nuova capitale dell’Impero, rispettivamente, Roma e Bisanzio, quest’ultima rinominata prima Nova Roma, dopo la sua rifondazione di ad opera di Costantino I, e poi Costantinopoli dallo stesso Imperatore in suo onore e memoria], portato alla luce a partire dall’estate del 1979 dall’archeologo albanese Damian Komata ed attualmente conservato presso il Museo Storico Nazionale di Tirana, si può ritenere che la parte centrale della stessa, formata dalla tessera centrale e dalle due file di tessere successive circolari, possa rappresentare un uovo collocato al centro della torta medesima (come era d’uso nella mia Spezzano). Se si tien conto che ogni singola tessera cubica ha il lato al massimo di 1 cm e che i circa 5 cm diametrali corrispondono proprio all’asse minore dell’uovo medesimo, si può anche affermare che sia l’uovo che l’intera torta, oltre a tutti gli altri alimenti, oggetti e sembianze umane, sono stati rappresentati pressappoco in misura reale.
  Inoltre, siccome il verbo "῾ѦΠ" (aprire) può avere il significato, sia di aprire la porta (per il pascolo), sia di squartare (smembrare), in fase di macellazione, la frase "῾ѦΠ KѦ ῾Ѧ ϘEϚ" dall’albanese della mia Spezzano letteralmente si può tradurre: "Apri la porta a bue, mangi troppo!" oppure "Squarta (smembra) bue, mangi troppo!"
  C’è chi ha ritenuto, non avendo altro da proporre, che lo scritto del mosaico in esame ci fornisce il nome, sia pure storpiato, di ἈBPAΞÁΣ o ἈBPAΣÁΞ. Questa parola, d’incerta etimologia e formata da 7 lettere alfabetiche, come i 7 astri: la Luna, il Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno, che, secondo l’opinione dell’epoca, vagavano nel cielo notturno dell’antichità rispetto allo sfondo delle stelle fisse, è stata ritrovata impressa su talismani magici di pietra o gemma come auspicio di potenza ed invincibilità, su cui il nominativo è spesso raffigurato con la testa di gallo [che con il suo canto ci segnala il sorgere del Sole (Mithra)] o di leone (simbolo del Sole e, secondo Sant’Ippolito, di Cristo per la sua potenza e dell’Anticristo per la sua ferocia), il corpo di un uomo e le gambe composte da due serpenti, che regge nella mano destra un bastone o un correggiato e nella sinistra uno scudo tondo o ovale (ved. immagine fotografica a fianco importata dal sito: Abraxas:il simbolo). Abrasáx (Ἀβρασάξ) in alcuni sistemi gnostici era un Dio, il Sommo Eone, creatore del mondo celeste, mentre il Demiurgo, costruttore del mondo terreno, era il Dio di Abramo, considerato meno importante del Sommo Eone. Il nome si trova anche in successivi manoscritti greci di carattere magico (alchemico-esoterico). Nella cosmologia gnostica, ABRAXÁS (ἈBPAΞÁΣ) è il nome del Dio Altissimo, ovvero il Padre Ingenerato. Le principali fonti dirette sono alcuni testi del più antico gnosticismo, facenti parte dei codici di Nag Hammadi: il Vangelo degli Egiziani e l’Apocalisse d’Adamo. Da quest’ultimo testo risulta che ἈBPAΞÁΣ è un Grandissimo Eone. Le teorie di alcune scuole gnostiche sono state raccolte da alcuni Padri della Chiesa per poi criticarle, tacciarle di eresia e, perciò, combatterle, considerando ἈBPAΞÁΣ una specie di Satana/Shaitan; invece altri studiosi lo consideravano come un altro nome del Cristo. Si riteneva che questo nome avesse il potere di allontanare le influenze magiche maligne, attribuito al valore numerico delle sue 7 lettere greche, che nella Grecia antica erano anche numeri e che davano il numero 365 (A = 1, B = 2, P = 100, A = 1, Σ = 200, A = 1 e Ξ = 60), pari anche ai giorni dell’anno solare del calendario giuliano, da cui si deduce, ma non solo da ciò, l’origine gnostico-mithraica del suo legame di essenziale mediatore tra l’umanità ed il dio Sole (Mithra). Ciò ci fa anche ritenere, vista l’incerta etimologia di ἈBPAΞÁΣ o ἈBPAΣÁΞ, che in origine questo nome sia stato ottenuto semplicemente facendo in modo che, se non tutte, visto che le sue prime 4 lettere alfabetiche coincidono con le prime 4 lettere del nome in caratteri greci ἈBPAÀM, , le sue ultime 3 lettere alfabetiche (il minimo necessario e sufficiente) venissero scelte in modo da ottenere il valore numerico di 365, a riprova di una unione o fusione del dio di Abramo ed il dio Sole portata avanti dai Basilidiani, secondo i quali questa divinità regnava sull’ultimo, in quanto simbolicamente vertice, dei 365 cieli. Da quanto precede, però, la storpiatura del nome dello scritto del mosaico in esame di 8 lettere non può essere ritenuta ragionevole, sia perché il numero delle lettere di ἈBPAΞÁΣ o ἈBPAΣÁΞ è pari a 7, sia perché l’immagine del mosaico è molto diversa da quella impressa nei suddetti talismani, sia perché la detta storpiatura non fornisce il suddetto numero 365 e soprattutto perché non è pensabile che, in un’opera di alto livello artistico come quella di questo mosaico, unico nel suo genere, se così si può dire, a livello europeo e che ha richiesto approfondito studio e grande abilità di organizzazione per la sua realizzazione, si potesse non conoscere alla perfezione un nome come quello in esame così noto, come visto, nell’epoca presa in considerazione.
  Nella navata settentrionale della basilica, in cui si trova la parte esaminata, il resto del mosaico contiene altre figure ottagonali approssimativamente regolari, nel quinto dei quali, se si contano a partire da quello contenente l’immagine del volto umano, è rappresentato un nodo quadrilobato a forma di nodo di Salomone, di cui l’anello interno è intrecciato con quello esterno ed avente in ogni lobo circolare una croce greca (equilatera), ottenuta con le diagonali del quadrato interno a ciascun lobo superiore e con i diametri ortogonali del cerchio interno a ciascun lobo inferiore (ved. immagine fotografica a fianco, importata dall’articolo, meglio indicato in seguito: "BAZILIKA PALEOKRISTIANE E MESAPLIKUT"), mentre nello stesso mosaico di questa navata vi sono rappresentati anche rametti con foglie di zizzania (urth-i) (ved. stesso articolo). La basilica in esame, essendo a tre navate, oltre a quella settentrionale, contiene anche la navata centrale e quella meridionale, il cui pavimento è anche realizzato a mosaico. In una superficie a forma di croce greca ruotata di 45 gradi, ottenuta dall’unione di due rettangoli ortogonali massimi inscritti in una delle sette figure ottagonali approssimativamente regolari del mosaico di quest’ultima navata, è rappresentato il nodo di Salomone, intrecciato con un anello quadrato, in modo che ogni lato di detto anello fa assumere alla croce di detto nodo la tipica forma a svastica (ved. immagine fotografica a fianco, importata dall’articolo, meglio indicato in seguito: "BAZILIKA PALEOKRISTIANE E MESAPLIKUT"). Anche questi simboli erano in uso da parte dei cristiani dei primi secoli della nostra era; addirittura la zizzania la si ritrova nei vangeli sinottici, come risulta dai seguenti versetti: «24Un’altra parabola espose loro così: "Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? 28Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? 29No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio"» (Matteo 13:24÷30, Liber Liber). Anche quanto precede ci induce a ritenere che lo scritto di questo mosaico non possa attribuirsi alla setta gnostica dei Basilidiani ed essere letto "ἈBPAΞÁΣ", come già a suo tempo aveva giustamente fatto l’archeologo Damian Komata col suo articolo: "BAZILIKA PALEOKRISTIANE E MESAPLIKUT", pubblicato nella rivista "Iliria", n. 1 - 1984. A rafforzamento di questa tesi si riporta l’immagine fotografica a fianco, importata dal medesimo articolo, la cui figura quadrangolare, appartenente al mosaico della navata centrale della medesima basilica, contiene 6 file orizzontali di archi semicircolari convessi affiancati, ciascuna delle quali poggia con le 6 estremità degli archi sulla parte superiore della fila inferiore. Siccome ogni fila di questi archi assomiglia all’increspatura delle onde del mare, questa figura rappresentando il crescere del livello di queste onde, simbolizza il diluvio universale (Genesi 7:10÷24), mentre l’immagine fotografica successiva (alla precedente), importata dallo stesso articolo, relativa al mosaico della navata meridionale della stessa basilica, contiene una colomba in cammino (con la testa parzialmente danneggiata), che reca sul corpo vicino al collo un nastro svolazzante e che, perciò, simbolizza il ritiro delle acque di questo diluvio con il riemergere della terra ferma (Genesi 8:10÷12).
  È stato detto in precedenza che le lettere greche dello scritto del mosaico della basilica di Mesaplik, sono disposte approssimativamente a forma di matrice rettangolare di quattro righe e tre colonne. Questa matrice è stata leggermente ristretta in modo simmetrico nelle ultime due righe per ridurre lo spazio occupato dalla colonna centrale ed avere in ciascuna di esse un’unica parola formata con le lettere della prima e dell’ultima colonna. Inoltre, coerentemente con tutto il ragionamento effettuato fin qui, bisogna ribadire che nel primo rigo dello stesso scritto vi è una sola parola composta da una sola lettera alfabetica, non potendosi ritenere che questa lettera alfabetica sia la prima lettera di una parola composta da più di una lettera, perché, se così fosse, la seconda lettera di questa ipotetica parola sarebbe stata posta a fianco alla prima nel primo rigo, magari facendo leggermente più piccola questa prima lettera, che risulta di dimensioni più grandi rispetto alle altre lettere dello scritto, realizzando due coppie di lettere nei primi due righi, così da ottenere complessivamente, lasciando inalterate le ultime due coppie, quattro coppie di lettere alfabetiche in quattro righe e due colonne. Avendo visto, perciò, in base alla disposizione geometrica delle lettere alfabetiche dello scritto in argomento, che nel primo e negli ultimi due righi è stata riportata una parola per rigo, bisogna concludere che le rimanenti lettere del secondo rigo formano almeno un’altra parola, venendo così a cadere la tesi di chi sostiene che lo scritto è composto da una sola parola. Però, la mancanza di spazi tra le lettere dello scritto del secondo rigo, ci induce a ritenere che queste tre lettere compongono la seconda delle quattro parole dello scritto a forma di matrice del mosaico de quo, quando la lettura viene effettuata per righe.
  Se si guarda il mosaico in modo particolareggiato, si nota che tutte le immagini ivi rappresentate sono state realizzate con estrema precisione ad eccezione delle lettere alfabetiche, che lasciano a desiderare, in quanto a precisione. Ciò mi ha incuriosito, inducendomi ad indagare ed, eventualmente, a scoprire quello che dietro questa apparente imprecisione si potesse celare.

  Se si confronta la lettera "Ϙ" del vaso greco-antico, dove sono raffigurati Patroclo e Achille (nudi con il proprio fallo ben visibile), e la madre del secondo, Teti (ved. immagine fotografica sovrastante, prelevata dal post "L’iscrizione del mosaico di Mesaplik del VI secolo è in lingua albanese" del blog "l’enigma della lingua albanese" di Elton Varfi e Adele Pellitteri), con quella del mosaico della basilica di Mesaplik, si riscontra che il gambo di quest’ultima è 5 volte più lungo di quello della prima, mentre il diametro della sua circonferenza risulta il doppio. Quindi, a parità di circonferenza, il gambo della stessa lettera greca dello scritto del mosaico risulterebbe 2,5 volte più lungo di quello della medesima lettera del vaso, pari circa al rapporto tra la base maggiore e la base minore di ciascun trapezio ivi rappresentato. Da ciò risulta che il gambo della lettera "Ϙ" del mosaico è stato fatto molto lungo rispetto al diametro del cerchio sovrastante, se si considera la stessa lettera, riportata sul suddetto vaso, di normali proporzioni. Questa conformazione della lettera "Ϙ" del mosaico ci induce a ritenere che la stessa lettera rappresenti in forma stilizzata anche un pesce, di cui la parte circolare la testa ed il gambo il resto del corpo, e di conseguenza, secondo Freud, il "simbolo fallico", mentre la conformazione di ogni lettera "Ѧ" dello stesso mosaico, senza segmento orizzontale, che è stato sostituito con una spezzata, in modo da formare con la parte superiore della medesima lettera un poligono romboidale, simile alla losanga, icona dell’organo sessuale femminile, pressappoco assomigliante alla forma della vulva, quando questa viene rappresentata con i pollici e gli indici, congiunti e ben divaricati, delle mani, detta "apertura a forma di yoni (sanscrito)", ci induce a ritenere che quest’ultima lettera sia anche un simbolo dell’organo genitale femminile. Non a caso nel pavimento della navata centrale di questa basilica vi sono rappresentati a mosaico simili rombi, come quelli dell’immagine fotografica a fianco, importata dall’articolo: "BAZILIKA PALEOKRISTIANE E MESAPLIKUT", con ciascuno dei quali, assieme alle due metà superiori di quelli adiacenti ai due lati inferiori, si ottiene proprio la particolare forma di questa lettera alfabetica. La parola yoni (joni) la troviamo anche nell’albanese (indoeuropeo come il sanscrito) della mia Spezzano, ma con un diverso significato, in quanto la traduzione letterale è: "nostro", cioè qualcosa che è in comune; ciò, però, farebbe pensare ad un’epoca molto remota, in cui, vigendo la poliandria o la poliandrogamia, il termine yoni (joni) in albanese poté significare anche pube o vulva, successivamente scomparso con il venir meno di tale rapporto. Nell’immagine fotografica a fianco, importata dall’articolo: "BAZILIKA PALEOKRISTIANE E MESAPLIKUT", che riprende una parte del mosaico della navata centrale di questa basilica, compare il simbolo dello yoni, che si ripete linearmente in file parallele equidistanti, ortogonalmente alle quali si sviluppa una identica conformazione, intersecantesi con la prima in corrispondenza delle estremità di ciascuno yoni, in modo da formare nell’insieme una rete a quadrifoglio. La lettera greca arcaica "Ϙ", detta "qoppa", da cui derivò, tramite gli etruschi, la lettera latina "Q", nell’epoca in osservazione veniva usata dalle popolazioni di cultura greca solo come numero, in quanto rappresentava il numero 90. La medesima lettera è stata utilizzata nel secondo rigo dello scritto del mosaico in sostituzione della lettera "K", che, invece, è stata normalmente utilizzata nel terzo rigo dello stesso, proprio al fine di rappresentare anche, sia, come detto, il pesce, "simbolo fallico", sia, come si vedrà in seguito, la coda del bue in argomento in forma stilizzata. Chiaramente anche gli altri pesci del mosaico rappresentano "simboli fallici" ed ognuno, compresa la suddetta lettera alfabetica avente forma simile, rappresenta il simbolo cristiano più famoso dell’epoca in osservazione. XΘÝΣ, le cui lettere compongono, come afferma Sant’Agostino nel "De Civitate Dei contra Paganos 18:23.1, PL 41", l’acrostico "HΣOŶΣ XPEIΣTÒΣ ΘEOŶ YἹÒΣ ΣΩTΉP", cioè "Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore", è la parola usata nel Nuovo testamento per la parola "PESCE". Inoltre, nell’ottagono approssimativamente regolare di sinistra del mosaico troviamo il volto di un uomo, mentre in quello di destra il volto della donna è stato sostituito con l’immagine della torta, che rappresenta il suo pube (KTEIΣ), dove la parte avvolta (ravvolta) rappresenta i riccioli sulle grandi labbra e la stratificazione rappresenta in successione: il resto delle grandi labbra, le piccole labbra (in grigio scuro), il vestibolo della vagina, l’imene (in grigio scuro) ed infine la parte centrale, in cui è collocato l’uovo della torta, l’ingresso della vagina. Il simbolismo sessuale dell’organo genitale femminile per mezzo della torta non ha sicuramente un fine pornografico, visto anche il luogo (basilica) in cui è stato rappresentato, ma si deve ritenere che con ciò si è voluto rappresentare simbolicamente la verginità. Anche la cruna d’ago, in fenicio qoph, alter ego in terra fenicia della lettera alfabetica greco-arcaica "Ϙ" (qoppa) e simbolo dell’imene per la sua apertura molto piccola, nonostante nei vangeli sinottici si ritenga che sia più facile per un cammello passare attraverso di essa e, quindi, lo sia ancora di più per il fallo, è simbolo di verginità. Così la lettera alfabetica greco-arcaica "Ϙ" (qoppa), come è stata rappresentata in questo mosaico, simbolizzando, come visto, sia il fallo che l’imene, parte dell’apparato genitale femminile, la si può ritenere simbolicamente ermafrodita.
  Ogni lettera "Ѧ", così come è stata rappresentata nel mosaico, assomiglia molto a un monosillabo, che è anche un monogramma di tre sillabe, che a pagina 150 del testo "Platone e l’Atlantide" di Gennaro D’Amato, Fratelli Melita Editori, Genova, ©1988, la cui prima edizione è dell’inizio degli anni ’30 del secolo scorso, l’autore così la descrive: "la invocazione sacra alle potenze elementari, il famoso monosillabo ѦVM (Ѧum) di cui ogni lettera rappresenta una persona della Trimurty indiana (e non indiana soltanto) Ѧ=Ѧgni, V=Varuna, M=Maruta, simbolizzano: Ѧgni il fuoco, Varuna l’acqua e Maruta l’aria. Le tre iniziali sono compendiate nella lettera
(una e trina)



nata dalla visione
".
  Quanto precede era stato preso in considerazione prima di ipotizzare per questo simbolo anche l’organo genitale femminile; però, non avendo alcun legame né con lo scritto e neanche con l’intero mosaico, tale ipotesi per forza di cose è stata opportunamente scartata. Si può, comunque, non tacere il fatto che Platone nel "Timeo" ricondusse i suddetti tre elementi naturali, il fuoco, l’acqua e l’aria, ed il quarto elemento naturale, la terra, i quali, secondo la filosofia dell’epoca, costituivano i quattro elementi (essenze) fondamentali, origine di tutte le cose del mondo terrestre, a quattro diverse forme geometriche: le particelle più piccole di fuoco, acqua, aria e terra venivano fatti corrispondere, rispettivamente, ai solidi regolari: tetraedro, icosaedro, ottaedro e cubo. Con ciò non si ipotizzava che esistesse, per esempio, un numero illimitato di piccolissimi tetraedri inalterabili ed immutabili che costituirebbero gli atomi del fuoco, ma questi quattro solidi fondamentali sono piuttosto essi stessi a loro volta composti in senso matematico dai triangoli formanti la loro superficie, così che i primi tre di questi solidi fondamentali possono essere trasformati l’uno nell’altro con i singoli solidi che si scompongono nei loro triangoli ed i nuovi triangoli possono nuovamente unirsi per formare solidi, in modo tale che, secondo Platone, dalla scomposizione (dissoluzione) di una particella d’acqua possono formarsi (generarsi) con la ricomposizione dei triangoli una particella di fuoco e due particelle d’aria; ciò in quanto con i 20 triangoli equilateri della superficie dell’icosaedro si possono formare un tetraedro (4 triangoli) e due ottaedri con i rimanenti 16. Ogni faccia del cubo, secondo Platone, è costituita da una coppia di triangoli rettangoli isosceli adiacenti lungo l’ipotenusa, così che il cubo non può essere trasformato negli altri tre solidi, la cui superficie è composta da triangoli equilateri. Gli stessi triangoli non rappresentano alcun che di materiale, non avendo essi la terza dimensione spaziale. Fuoco, acqua ed aria possono dunque, secondo Platone, essere convertiti l’uno nell’altro, mentre la terra, particolarmente stabile, non partecipa a questa trasformazione; ciò nonostante gli atomi di terra possono essere mescolati con i primi. Nello spazio a tre dimensioni in cui operava Platone vi è un quinto ed ultimo solido regolare, avente, cioè, superficie convessa sfaccettata da 12 pentagoni regolari identici, inscrivibile, perciò, in una superficie sferica: il dodecaedro, che si ottiene con lo stesso metodo generale applicabile anche ai precedenti, facendo, cioè, convergere da tre a cinque angoli di triangoli equilateri, tre angoli di quadrati o tre angoli di pentagoni regolari in un punto, così da formare un angolo solido, e completando poi tutti gli altri angoli solidi nello stesso modo. Per Platone, sempre nel Timeo, al dodecaedro veniva fatta corrispondere la quint’essenza (elemento), di cui Dio, ordinatore e compositore (costruttore), ma non creatore, si servì per ornare il Tutto, cioè il mondo celeste.
  Nel greco antico la lettera "A" era rappresentata come quella dell’alfabeto latino e, quindi, era identica a quella italiana. Come la lettera "U" nel latino classico veniva rappresentata con "V" [pare, però, che il latino classico non possedesse il suono /V/, che si è venuto a formare nel latino ecclesiastico; durante il medioevo, infatti, il suono /U/ semiconsonantico (o semivocalico) passò a /V/], così poteva capitare che nel greco antico la lettera "A", in qualche caso ed in modo particolare nella moneta seguente, veniva rappresentata con "Λ", che normalmente rappresenta la lettera lambda, essendo le stesse lettere facilmente distinguibili nella lettura, in quanto la prima di ciascuna delle due coppie è una vocale, mentre la seconda è una consonante. Solo raramente nel greco antico la lettera "A" veniva rappresentata con il simbolo contenuto nello scritto del mosaico in discussione, come nel caso della seguente moneta emessa circa nel 370 a.C. da ϘPOTON, in cui compaiono la testa laureata di Apollo rivolta a destra con la scritta "T Λ Σ   K P O T Ω N I" (TAΣ KPOTΩNIѦ <=> KPOTΩNIѦTAΣ), al dritto, ed Ercole bambino, nudo, inginocchiato con le gambette divaricate come quelle dellaed il fallo ben visibile, con la testa girata a sinistra, che strozza due serpenti, al rovescio, dal cui contenuto non si evince alcun legame con la suddetta Trimurty, mentre si ritrovano nella stessa moneta sia il fallo, sia il simbolo a losangadell’organo genitale femminile precedentemente esaminato, con le gambette divaricate, come quelle di "Erculetto" (nom.vo lat.: Hercules parvus), anche se in questo caso sarebbe più appropriato "ErKA..etto", poi "Ercoletto", "Ercoluccio" ed infine "Ercolino", simile al "bambinello", nello spezzanese in caratteri greci "BOMINIϚI", derivante dal dialetto regionale. Si riporta l’indirizzo di importazione della sottostante immagine fotografica della suddetta moneta:
http://www.wildwinds.com/coins/greece/bruttium/kroton/t.html => SNGANS 385.
  Se, a questo punto, si legge il secondo rigo da destra a sinistra, si ottiene "ϘѦΠ", che ci suggerisce il fonema della prima lettera di questa parola, cioè di "Ϙ", rappresentato dal suono [k]. Se, inoltre, si legge soltanto la terza colonna dall’alto in basso, si ottiene "ϘEϚ", cioè "TROPPO" [lungo (?)], riferito, come in precedenza, alla prima lettera "Ϙ" e, quindi, al "simbolo fallico". Se, infine, si analizza nuovamente il secondo rigo e si associa al simbolo fallico "Ϙ" ed al simbolo della vulva "Ѧ", rispettivamente, il bue, in albanese "ϘѦ", di cui questo simbolo è la lettera iniziale, e la vacca, si comprende anche perché la lettera "Π" è stata realizzata piccolina, in quanto rappresenta di profilo il frutto dell’unione tra il bue e la vacca, cioè il vitello, che li segue, quando camminano da sinistra verso destra. Di conseguenza, "POCHI" <=> "ΠѦϘ" <=> VITELLO + MUCCA + BUE, cioè vitello, mucca e bue sono equivalenti a pochi (alimenti) in senso materiale.
  Discutendo dei segni diacritici, è stato detto che la ""barretta, che è stata apposta sulla lettera "’Ѧ" del quarto rigo, denota la presenza dello "spirito dolce" che indica l’assenza di tale fonema"", cioè dell’aspirazione. Sulle altre due "῾Ѧ" dello scritto del mosaico, invece, si nota appena sopra di esse o una barretta molto più corta, oppure un taglio dell’estremità superiore; in entrambi i casi si deve ritenere la presenza dello "spirito aspro", quanto sono all’inizio di parole, con la conseguenza che le stesse debbono essere aspirate.
  È stato detto che le cinque lettere ("Ϙ", le tre "Ѧ" e "Π"), hanno, singolarmente prese, un significato particolare e mi sono posto il problema se anche le rimanenti tre lettere potessero avere un significato, se considerate da sole, visto che avevo notato che la lettera "K" può simbolizzare l’aratro, di cui il segmento verticale corrisponde al vomero, utile all’allevatore (ed anche agli agricoltori) per la produzione del fieno per l’allevamento e dei cereali, compreso il grano, necessari per un’alimentazione completa. Quest’ultima lettera, però, pur assomigliando molto all’aratro, proviene dalla lettera Kaph dell’alfabeto fenicio (), un simbolo che rappresentava una mano aperta, generata a sua volta dalla lettera Kap dell’alfabeto proto-cananeo (, Author=User:Mintz l, Permission=Educational). La lettera "E" simbolizza il tridente, utile per la raccolta del fieno, per spostare il letame e per la raccolta dei suddetti cereali. Infine, la lettera "Ϛ" può simbolizzare il carro (in albanese "ϚEPPE", scritto con caratteri greci), utile per il trasporto del fieno e dei suddetti cereali, oppure la falce, utile per la mietitura dell’erba per il fieno e dei suddetti cereali, oppure la stalla per l’allevamento de quo, normalmente aperta da un lato, con annesso spazio esterno recintato, ma non rappresentato, oppure simbolizza almeno due dei detti prodotti artigianali. Però a queste tre lettere ed a "Π" si può attribuire anche un’altro significato. Essendo "E" a forma di pettine, sia pure con pochi denti, e, quindi, rappresentando la stessa simbolicamente il "PETTINE", in greco antico "KTEIΣ", essa simbolizza anche il pube, che in questa lingua ha la stessa composizione letterale. Così "K", perché, simbolizzando una mano aperta, con le sue cinque dita funge pure da pettine naturale e, di conseguenza, simbolizza anche il pube <=> κτεις <=> pettine, di cui è la lettera alfabetica greca iniziale; ma la sua forte somiglianza, come in precedenza detto, all’aratro l’accosta al simbolo fallico, simbolizzato da questo strumento agricolo atto a penetrare la terra per seminarla e renderla feconda, così che simbolizzando la lettera K entrambi gli organi sessuali la si può ritenere simbolicamente ermafrodita. Il numero "Ϛ", stigma, (6) è noto come simbolo del pube (κτεις). Inoltre, con stigma in botanica si chiama la parte del gineceo che riceve il polline durante l’impollinazione. Nella Smorfia, chiamata anche cabala, che è il libro dei sogni, usato per ottenere da ogni sogno il corrispondente numero da giocare, il numero 6 è quella cosa che guarda per terra, cioè la vulva o pube. Si ritiene che l’origine della Smorfia risieda nella tradizione della Cabala (Qabbalah) ebraica, in base alla quale, non solo nella Bibbia, ma nell’intero mondo, considerato come una serie di simboli, ogni simbolo, parola, lettera o segno ha qualche significato misterioso correlato. L’origine del termine "smorfia", pur essendo incerta, frequentemente si ritiene essere legata al nome del dio del sonno dell’antica Grecia Morfeo. "Π", derivando dalla lettera fenicia pe, che significa "bocca", nella numerazione greca antica valeva 80, che nella Smorfia significa anche "bocca", simbolizza qui la bocca della vita, cioè la vulva. Quest’ultima considerazione e, nello stesso tempo, coincidenza ci fornisce una prova lampante di quanto remota sia l’origine della Smorfia. Così tutte le lettere alfabetiche dello scritto del mosaico in esame rientrano nel simbolismo a sfondo sessuale.
  Un’altra cosa che mi ha incuriosito sono state le dimensioni più grandi della lettera "῾Ѧ" del primo rigo dello scritto del mosaico, rispetto a quelle di tutte le altre lettere dello stesso. Ho osservato attentamente lo scritto di questo mosaico ed ho notato che questa lettera rappresenta la testa del quadrupede in argomento (), mentre la "Ϙ" con il gambo lungo rappresenta approssimativamente la coda (in latino: penis, da cui deriva pene) dello stesso, la seconda riga il dorso o groppa e l’ultima coppia di lettere della prima e della terza colonna le quattro zampe, viste di profilo, del medesimo "", cioè del bue dello scritto del mosaico della basilica di Mesaplik.
  Alla luce di quest’ultima analisi, la frase "῾ѦΠ KѦ ῾Ѧ ϘEϚ", che dall’albanese della mia Spezzano, come detto, letteralmente si può anche tradurre: "Smembra bue, mangi troppo!", acquista anche un significato astratto, in quanto "mangi", questa volta. ha a che fare con l’appetito del sapere o del conoscere, e, quindi, dato che, come visto, il bue è stato rappresentato con tutte le lettere dello scritto del mosaico de quo, la traduzione non può che essere: "Smembra lo scritto, conosci troppo (o molto)!", o, meglio, "Scomponi lo scritto, conosci troppo (o molto)!" A quest’ultima frase possiamo dare il proprio significato estensivo di "Dedicandoti allo studio, conosci troppo (o molto)!" Se la frase "῾Ѧ ΠѦϘ KE ’ѦϚ", che con l’anteposizione delle ultime due parole letteralmente si traduce: "Hai tanto (o questo), mangi poco!", con "tanto (o questo)" riferito agli alimenti rappresentati nel mosaico, sia quelli rappresentati direttamente, che quelli rappresentati indirettamente tramite lo scritto, ossia dal "" <=> "BUE", la si traduce: "Hai alimenti, mangi poco!", ad entrambe le frasi (quella letta per righe e quella letta per colonne), se combinate, si può dare il significato del proverbio, che suona così: "Non si vive di solo pane!"
  Si nota che la disposizione delle lettere alfabetiche del mosaico è approssimativamente rappresentata a forma di "H" (eta) con parte superiore del segmento verticale a destra mozzato. Questa disposizione simbolizza approssimativamente anche la sedia, che è indispensabile per chi si dedica al sapere o alla conoscenza e, quindi, allo studio, come i buoi sono indispensabili per l’allevatore di bovini e l’aratro per l’agricoltore. Nella numerazione greco antica si faceva uso delle lettere dell’alfabeto greco per rappresentare i numeri ed al simbolo "H" corrispondeva il numero 8, che è lo stesso del numero dei lati delle due figure ottagonali approssimativamente regolari contenenti: la prima l’immagine del volto umano e lo scritto del mosaico, la seconda la torta. Questo indizio mi ha indotto a indagare sul significato numerico del mosaico ed, in modo particolare, su quello delle sue lettere alfabetiche. La scrittura di un numero si otteneva per giustapposizione di questi simboli ed il sistema era puramente additivo. Così, se si accoppiano le lettere del mosaico, in modo che ogni consonante precede la vocale che gli sta vicina, si ha: "ϚE", "ϘѦ", "ΠѦ", "". Essendo Ϛ = 6, E = 5, Ϙ = 90, Ѧ = 1, Π = 80, K = 20 ed, inoltre, ϚE = 11 (come somma tra 6 e 5, in quanto il numero 11 era , con I = 10), ϘѦ = 91, ΠѦ = 81 e = 21, consegue che le due coppie di lettere della prima colonna ammontano a 102 (81 + 21), così come le altre due coppie di lettere ammontano alla stessa cifra, cioè 102 (11 + 91). Ciò non si ottiene se a "Ϙ" e "Ϛ" si sostituisce, rispettivamente, P = 100 e Σ = 200. Le coppie di lettere sopra riportate si ottengono leggendo la terza colonna dal basso in alto, proseguendo con ciò che rimane della seconda riga da destra a sinistra e poi con ciò che rimane della prima colonna, prima verso l’alto e poi verso il basso. Questo percorso ci fornisce anche la seguente frase: "ϚE ϘѦ, ΠѦ", che dall’albanese della mia Spezzano letteralmente si traduce: "È stato bue, senza bue", in seguito, evidentemente, a macellazione. Chiaramente, in questo caso lo spazio tra parole non è necessario, in quanto tra una parola e l’altra si passa da colonna a riga e poi di nuovo a colonna, prima verso l’alto e poi verso il basso. Se nel suddetto percorso, giunti all’incrocio tra la seconda riga e la prima colonna, si invertono e poi si congiungono le successive coppie di lettere, si ottiene: "ϚE ϘѦ KѦΠѦ" e disponendo in ordine sintattico si ottiene: "ΠѦ ϘѦ ϚE", che dall’albanese della mia Spezzano letteralmente si traduce: "Cappa ha buoi". Dato che la lettera "K", come in precedenza detto, rappresenta l’aratro, la precedente frase diventa: "Aratro ha buoi", chiaramente, per arare. Effettuando la lettura dalla prima riga e proseguendo nel sottostante minore della detta matrice in senso destrorso, si ottiene: "῾Ѧ ΠѦϘϚ ’ѦK". Tenendo conto che a Piana, diversamente che a Spezzano, "Ϛ", in caratteri greci arcaici, e "HEQ", in caratteri latini, significa "Tirare" e che "’ѦKZIΛI/Ѧ" (AKCILI/A) significa "Il tale/La tale" o "Quel tale/Quella tale" e che, quindi, "’ѦK" è una forma arcaica di "’ѦT", la precedente frase si traduce: "Mangi poco, tiri quella" o "Mangi poco, la tiri", cioè "Mangi poco, si tira". Se invece di proseguire in senso destrorso, si prosegue in senso sinistrorso, si ottiene: "῾ѦΠϚE ϘѦ", che dall’albanese della mia Spezzano letteralmente si traduce: "Smembra bue, è stato bue".
  Come si può constatare direttamente dal mosaico in argomento, i contenitori della frutta (pere) sono delle coppe. La presenza di queste coppe, oltre, come si è visto, ad avermi indirizzato verso il significato letterale attribuito alle prime due frasi scaturite dallo scritto dello stesso mosaico per avere una delle sue lettere lo stesso nome, mi ha indotto ad approvare la brillante idea di alcuni studiosi, che hanno giustamente ritenuto la terza lettera del secondo rigo dello scritto di questo mosaico essere la lettera greca arcaica "Ϙ", senza, però, darne alcuna giustificazione plausibile, consentendo, così, ai sostenitori del "P" di persistere ad una sistematica opposizione al trionfo di questa idea.
  Per quanto riguarda le figure quadrangolari, in considerazione del fatto che tutto ciò che è stato riscontrato nel mosaico riguarda l’alimentazione umana, si deve ritenere che quella di destra, formata con tre spire di tessere approssimativamente a forma quadratica di color marrone chiaro (di cui le due più esterne tendenti al grigio chiaro per effetto del tempo), con all’interno altrettante spire marrone scuro, per indicare due strati sovrapposti, quello inferiore più esteso rispetto al superiore, avente al centro un’apertura realizzata con altre due spire di colore ecrù, rappresenti due mostaccioli sovrapposti; la stessa cosa dicasi per quella di sinistra, formata con tre spire di tessere marrone chiaro con all’interno altrettante spire marrone scuro, avente al centro un’apertura realizzata nella rappresentazione da una spira di colore ecrù con all’interno un bastoncino di due tessere dello stesso colore. Come si può constatare l’apertura del quadrato di sinistra è più piccola dell’altra. Questi due quadrati sono rombi con tutti gli angoli uguali e, quindi, anche losanghe, icone dell’organo sessuale femminile. È d’uso nel costume italo-albanese "rompere il mostacciolo" durante la festa che segue di una settimana quella del matrimonio. Siccome ognuna delle due coppie di mostaccioli quadrati sovrapposti del mosaico simbolizza: il mostacciolo superiore il vestibolo della vagina, la parte visibile di quello inferiore l’imene e l’apertura centrale della sovrapposizione l’apertura dell’imene con la retrostante vagina e, quindi, anche la verginità nel caso dell’apertura più piccola, il venir meno della stessa nella losanga di destra con l’apertura dell’imene allargata, la rottura del mostacciolo dopo il matrimonio sta a simbolizzare la consumazione del matrimonio stesso con il venir meno della verginità. Quindi le due aperture all’interno delle losanghe del mosaico, simbolizzando l’imene prima e dopo il matrimonio, simbolizzano assieme sia il matrimonio stesso, sia la riproduzione umana che del matrimonio è il fine. L’immagine a fianco, simile, a meno delle due gambette, a quelle del mosaico, riproduce la pietra che simboleggia lo yoni, ubicata nel santuario di Cát Tiên a Lam Dong in Vietnam. Le mura perimetrali di Cosa presso Orbetello hanno la forma romboidale. I pani rituali erano decorati con losanghe e altri simboli, ancor oggi applicati su dolci, come i mostaccioli di Soriano; i mostaccioli di Sora, dolce natalizio di cioccolato ripieno di marmellata, frutta secca, pasta per biscotti ed altro, secondo le ricette, sono a forma di piccoli parallelepipedi a base romboidale (losanga); ad Olevano in Campania i mostaccioli sono dolci ricoperti di glassa al cioccolato di consistenza compatta, a volte elastica, altre volte friabile, la cui forma classica è parallelepipeda a base romboidale (losanga); la torta rituale descritta sulle tavole di Gubbio (IV sec. a.C.), chiamata ficla, da cui derivò la parola "fica", era anche a forma di losanga. Ciò non toglie che questi 2 quadrati, quello di sinistra con un foro rettangolare al centro più piccolo rispetto a quello di destra, simbolizzino anche il 4° giorno della creazione biblica, in cui sono state create due grandi luci [in albanese: ΔPITѦ (DRITA), la cui prima lettera numericamente è 4, pari proprio ai lati di ciascun quadrato], in analogia alle due luci assunte dall’imene: la luna ed il sole (Genesi 1:16÷19), rappresentati, rispettivamente, con il foro più piccolo, in cui passa meno luce, ed il foro più grande, come due finestre "nel firmamento del cielo". « In Hopi a squared-off form is called Tapu'at: "Mother-Child," clarifying the meaning of cosmic womb, gestation, and portal into the spirit realm » (Presso gli Hopi uno (labirinto) a forma squadrata è chiamato Tapu'at: "Madre-Bambino", a chiarimento del significato di utero cosmico, gestazione e portale nel regno dello spirito). Nella foto a sinistra del sito Internet "IL LABIRINTO DEL PORSENNA" di Romagnoli Stefano è riportato il detto labirinto squadrato (a forma di piazza approssimativamente quadrata) su un frammento di roccia, rinvenuto a Oraibi nella Riserva dei Nativi Americani (Pueblo) Hopi, in Arizona, risalente al 1100 ÷ 1200 d.C., simbolo dell’apparato genitale femminile a livello cosmico e, quindi, non solo della nascita, ma anche della rinascita, o della Madre Cosmica (Natura, Terra). Di labirinti Hopi ne esistono due tipi, rappresentanti entrambi la rinascita e la rigenerazione, di cui quello quadrato in esame rappresenta anche, come detto, la Madre Terra e il figliolo, il cui percorso di linee squadrate allo stesso tempo esprime il bambino rannicchiato nell’utero (grembo materno) e il bambino neonato avvolto tra le braccia amorose materne. La linea retta in ingresso/uscita del labirinto rappresenta sia il cordone ombelicale sia la via di nascita (vagina e vulva). Dall’esame di questo labirinto con i suoi corridoi a spire quadrate concentriche si nota una forte somiglianza con i gruppi di spire di tessere quadrate ognuno di un colore diverso dall’altro che compongono i due quadrati del mosaico in esame, a riprova che ciascuno di questi ultimi, come questo labirinto, simboleggia l’organo genitale femminile. All’interno di ciascun quadrato del mosaico in esame i tre confini approssimativamente quadrati tra ciascun gruppo di tessere di un colore diverso dall’altro formano una triplice cinta muraria, associata alla figura del labirinto, come quelle delle due immagini a fianco, la prima ripresa sul coperchio del sarcofago del Vescovo Giovanni Ravennate del VII sec. a Spalato, Palazzo di Diocleziano, Battistero di San Giovanni, la seconda sulla volta del presbiterio della Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo, in cui Dio Padre è scolpito in una struttura a triplice quadrato concentrico, di cui quello intermedio camuffato da un nastro (Prima e Seconda foto del sito www.duepassinelmistero.com di Marisa Uberti). Il Tempio di Gerusalemme "costruito a moʼ di cittadella" (Tacito, Historiae, V,12.1) aveva una triplice cinta muraria (Lettera di Aristea a Filocrate, 84, Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XV,15.5 e La Sacra Bibbia, I Re, VI,36, e VII,12), perciò ciascuno di questi quadrati del mosaico in esame simbolizza anche il medesimo Tempio. "Gerusalemme era protetta da una triplice cinta di mura, eccetto nella parte che affaccia su strapiombi impraticabili, dove il muro era uno solo" (Giuseppe Flavio, La Guerra Giudaica, V,4.1). Nel mosaico in esame il quadrato di sinistra con i tre trapezi adiacenti forma appunto una triplice cinta con segmenti diagonali, come quella dell’immagine a fianco, ma senza segmenti mediani, ripresa nell’Abazia Cistercense di Piona in agro di Colico (Lecco) (Foto del sito www.duepassinelmistero.com di Marisa Uberti), per tre lati, mentre il quarto lato, a fianco all’immagine del volto umano è una semplice cinta, il tutto proprio come a Gerusalemme, per cui, avendo già visto che il quadrato contiene il Tempio, questo assemblaggio geometrico simbolizza anche proprio Gerusalemme con il suo Tempio. La cinta intermedia non compare esplicitamente, perché è stata sostituita in un lato con il pesce disposto in luogo di questa cinta, mentre negli altri due le tre pere di ciascuna coppa (simbolicamente simile a torre) indicano la terza cinta mancante al posto della quale sono state collocate. L’altro quadrato, essendo identico al primo, simbolizza lo stesso Tempio, mentre la triplice cinta di Gerusalemme risulta rappresentata, oltre che dai lati superiore e inferiore, nei quali la cinta intermedia è stata sostituita con la coppia di pesci disposti in luogo della stessa, dal lato destro dalla parte comune dell’immagine circolare alla sua destra, che, come si vedrà in seguito è una triplice cinta circolare. Si fa notare, inoltre, che Louis Charbonneau-Lassay, nel suo studio dell’esoterismo cristiano, a proposito del simbolo della triplice cinta afferma: «Ciascuno sa che, nell’ermetismo generale dell’Occidente e nella simbologia cristiana delle figure geometriche, il Quadrato rappresenta il Mondo, che è letteralmente la Mappa Mundi, la tovaglia del mondo, il nostro "mappamondo", il planisfero terrestre e celeste. Detto questo, tre quadrati inscritti l’uno dentro l’altro, con centro unico, ovvero formanti un solo e medesimo insieme, rappresentano i tre Mondi dell’Enciclopedia del Medioevo, il Mondo terrestre in cui viviamo, il Mondo del firmamento in cui gli astri muovono i loro globi radiosi in immutabili itinerari di gloria, infine il Mondo celeste e divino in cui Dio risiede insieme ai puri Spiriti.» (in rivista ATLANTIS, 3° anno, n° 1-21, settembre-ottobre 1929, articolo intitolato: "La triple enceinte de l’emblématique chrétienne", e in "Le Pietre Misteriose del Cristo", Ed. Arkeios, 1997, pp. 36 s.).
  Si è visto che ad ogni ottagono approssimativamente regolare del mosaico corrisponde la lettera alfabetica "H", di conseguenza ad ogni quadrato (formato da quattro lati uguali) di detto mosaico corrisponde la lettera greca "Δ", che rappresenta il numero quattro. Se al numero di pezzi di alimenti, contenuti in ciascun settore del mosaico, ed a ciascuna coppa associamo la corrispondente lettera alfabetica, otteniamo: per 1 pesce la lettera "Ѧ", per 2 pesci la lettera "B", per 3 pere la lettera "Γ", per 1 torta la lettera "Ѧ" e per 1 coppa la lettera "Ѧ". Con le trasformazioni precedenti, se si legge il mosaico lungo la fila centrale da sinistra ad iniziare dal primo quadrato, si ottiene: "ΔH ΔѦ", che ha come complemento oggetto l’alimento a cui corrisponde l’ultima lettera della frase, cioè, in lettere latine, "KULAÇ" o "KULURE" e che dall’albanese della mia Spezzano letteralmente si traduce: "Mondo ha dato" "torta"o, meglio, "Terreno ha dato" "torta". Se, invece, si legge da destra, si ottiene: "ἨΔῊ ΔѦ", che ha come complemento oggetto, come in precedenza, l’alimento a cui corrisponde l’ultima lettera della frase, cioè "pesce" o, se dal quadrato di sinistra si prosegue in direzione ortogonale, "coppa" (con pere), e che dallo stesso albanese letteralmente si traducono, rispettivamente: "Ancora ha dato" "pesce" e "Ancora ha dato" "coppa" (con pere) o "frutta", mentre se alla frase "ἨΔῊ ΔѦ" si attribuisce come complemento oggetto la "I", rappresentata dal pesce disposto con la coda in giù e la testa in su, come se fosse in piedi o, meglio, in coda, la traduzione diventa: "Ancora ha dato G", essendo "G" l’iniziale di "Gesù", che è la traduzione di HΣOYΣ, la cui iniziale è il suddetto complemento oggetto, e se, leggendo sempre allo stesso modo, alla "Ѧ" della precedente frase si sostituisce la stessa "I", si ottiene la frase: "ἨΔῊ ΔI", cioè "Ancora capra", dove il soggetto ed il verbo continuano ad essere gli stessi, cioè "Mondo" e "ha dato". Se si applica lo stesso ragionamento, leggendo intorno al quadrato di sinistra del mosaico in senso orario, otteniamo: "ΓHΓѦ", oppure "ΓHΓ" (se si effettua mezzo giro), in italiano, rispettivamente, "Ghega" e "Gheg", ciascuno dei quali potrebbe essere il nome dell’autore del mosaico, oppure quello del personaggio ivi rappresentato, mentre il secondo è anche il nome della parte della popolazione albanese stanziata al nord, ma potrebbe anche indicare l’appartenenza alla suddetta parte di popolazione dell’autore del mosaico o del detto personaggio, visto che la basilica Mesaplik, in cui è stato rinvenuto il mosaico, trovasi a sud della suddetta regione. Se, infine, applichiamo lo stesso ragionamento leggendo intorno al secondo quadrato in senso orario, si ottiene, sempre in caratteri greci: "BHBΉ", che dall’italo-albanese letteralmente si traduce: "Fionda" oppure "Arco"; se, invece, si legge: "BH BH", oltre ad essere il belato della pecora, dall’italo-albanese letteralmente si traduce: "Promessa pecorella". Sostituendo, poi, alla lettera "H", corrispondente al numero 8 dell’ottagono, la lettera "Ѧ", corrispondente al numero 1 della torta in esso contenuta, per mezzo giro si legge: "BѦB", che dall’italo-albanese letteralmente si traduce: "Babbeo", "Stupido", "Sciocco", "Deficiente" o "Scemo". Se, invece, si fa un’eccezione alla regola seguita finora e si sostituisce, al posto della torta o dell’ottagono approssimativamente regolare in cui è inserita, la lettera "O" relativa alla stessa torta, che è circolare, così come è stato fatto con il pesce a cui è stata sostituita la lettera "I", si ottiene: "BOB" o "BOBḦ", che dall’italo-albanese letteralmente, rispettivamente, si traducono: la prima "Gigante" o "Atleta", ognuna delle quali riferita al personaggio del mosaico, che ne ha le sembianze; la seconda "è il nome dei pesci rappresentati nel mosaico", oppure "Schiaffo", "Tubercolo", "Bulbo", "Donna o cosa, rotonda e grossa", come la torta ivi rappresentata. Siccome la torta, come è stato detto, è formata da 13 file di tessere, poste intorno alla tessera centrale, della stratificazione circolare e da 7 file di tessere della parte attorcigliata, pari complessivamente a 20 file di tessere, il numero 20, come detto, in greco antico si rappresenta con la lettera "K", che non è altro che l’iniziale di "KOYΛѦϺ" => "KOYΛѦTΣ" (KULAÇ) o "KOYΛOYPE" (KULURE), cioè di "torta", dove "Ϻ" è la lettera greca arcaica "San". "K" è anche iniziale della parola greca antica KTEIΣ, gen.vo KTENOΣ, Ὁ, in italiano pube, che, come si è visto, è simbolizzato dalla torta e da cui deriva "KTENѦ", che dall’albanese della mia Spezzano letteralmente si traduce: "Di qua/i" o "Per di qua/i", stante ad indicare un percorso, in questo caso quello dello sperma in fase riproduttiva. Se, poi, alle 20 spire di tessere si aggiunge la tessera centrale, si ottiene 21, che in greco antico si scrive "", che è anche la parola "", in italiano "BUE". Se al quadrato di sinistra con il suo contenuto (due mostaccioli) si associa il numero 6 (4 per i lati e 2 per i mostaccioli), leggendo a partire da questo quadrato andando verso destra, si ottiene: "ϚH ΔH", che dall’albanese della mia Spezzano letteralmente si traduce: "È stato/a terra!" oppure "È stato/a terreno!", dove il soggetto è l’alimento che precede, cioè il pesce o la frutta, oppure quello contenuto nel quadrato stesso, il mostacciolo.
  È stato visto che lo scritto del mosaico è formato da otto parole (4 nelle righe e 4 nelle colonne, escludendo le parole del percorso misto). Si può ora aggiungere, non solo che queste otto parole corrispondono agli otto lati di ciascun ottagono approssimativamente regolare ed alle otto spire del cordone toroidale della torta, ma soprattutto che il numero di lettere alfabetiche di ogn’una di queste otto parole, corrisponde al numero di alimenti di ogn’uno degli otto settori del mosaico che li contiene. Difatti, alla parola "῾Ѧ" del primo rigo, formata da una sola lettera, corrisponde il "pesce" a sinistra del mosaico; alla parola "ΠѦϘ", formata da tre lettere, corrispondono le "tre pere" di una coppa; alla parola "KE", formata da due lettere, corrispondono i "due mostaccioli" di un quadrato; alla parola "’ѦϚ", formata da due lettere, corrispondono i "due pesci"; alla parola "῾ѦΠ" della prima colonna, formata da due lettere, corrispondono gli altri "due mostaccioli"; alla parola "" della stessa colonna, formata da due lettere, corrispondono gli altri "due pesci"; alla parola "῾Ѧ" della seconda colonna, formata da una sola lettera, corrisponde la "torta"; infine, alla parola "ϘEϚ" della terza colonna, formata da tre lettere, corrispondono le "tre pere" dell’altra coppa.
  Se, poi, si considera che la tessitura era indispensabile, come lo è tutt’ora, per la popolazione dell’epoca presa in esame, l’intrecciatura e la quadrettatura tutt’intorno al mosaico rappresentano sicuramente questa attività manifatturiera. Se si osserva quest’intrecciatura localmente, si nota che essa è formata da quattro corde, se non cordoni (dato che ciascuna di esse è formata mediamente da nove file di tessere cubiche di lato non superiore al centimetro), che nello spazio hanno un andamento sinusoidale o sinoidale, come le onde. Ognuna di queste quattro corde è spostata rispetto alle altre in modo che la terza risulta opposta alla prima, qualunque sia quest’ultima, per cui se si considerano la prima e la terza fino ai due punti, uno a sinistra ed uno a destra, in cui si intersecano, sia la parte di sopra che quella di sotto rappresentano una semionda ed entrambe assumono la forma sia dello yoni (vulva), sia di un pesce senza coda. Due semionde della stessa corda, come la stessa parola ci suggerisce, formano un’onda, mentre la metà di una semionda è un quarto di onda. Se a questa forma di pesce senza coda, composta da due semionte opposte, si aggiunge la metà a forma di coda di quella successiva o precedente, identica alla stessa, si ottiene la forma di un pesce completo, come si può constatare nella sottostante figura. Ciò è ben visibile nelle parti inizianti alle due estremità collocate a destra nel mosaico. Così anche nell’intrecciatura circostante al mosaico si ripresenta il simbolo cristiano più famoso dell’epoca in osservazione: il pesce. E’ anche interessante notare come in corrispondenza dei due angoli retti di sinistra del mosaico le onde sinoidali si trasformano in onde quadre (rettangolari), di cui una delle quattro, quella che raggiunge l’angolo, assume la forma di una vera e propria onda impulsiva o impulso, forma tipica del simbolo fallico, che penetra le rimanenti tre a forma di vagina. Il valore medio di nove tessere per cordone (ombelicale), simbolizza il periodo di gravidanza che non è sempre costante. Queste onde, trovandosi in ambiente biblico, possono anche riferirsi a quelle generatesi durante il diluvio universale (Genesi 7:10÷24).
  Dal mosaico risulta che ogni coppa contenente tre pere rappresenti una sorta di simbolismo cristiano della Trinità (tre in uno, cioè uno e trino). Se si esclude la pera vaginale, strumento di tortura della Santa Inquisizione, che veniva applicata alle donne ree di rapporti con suoi familiari o con Satana, la pera nelle varie epoche è stata ritenuta simbolo del seno e, in qualche occasione, "simbolo fallico" e, quindi, anche simbolo di prosperità e fecondità, come la Creazione di Adamo [mosaico bizantino del
XII sec. circa - duomo di Monreale (PA)], rappresentato con l’addome a forma di grande pera simbolizzante non solo il frutto proibito ingerito, ma anche, ragionevolmente parlando, il "phallus" o "φαλλóς" con il rigonfiamento inferiore fungente da testicoli (ved. immagine fotografica a fianco), o come la Signora di Efeso che i Greci identificano con Artemide, la cui rappresentazione scultorea (copia romana del I sec. - museo di Efeso) la mostra con il busto coperto da (20) protuberanze rotondeggianti che sono state ritenute sia mammelle, sia testicoli di toro. Da ciò si deduce che alle tre pere di ogni coppa del mosaico corrispondono tre femmine del genere umano. Anche alle tre lettere "Ѧ" dello scritto dello stesso mosaico, simbolizzanti, come visto, tre "vulve", corrispondono tre donne. Avendo in precedenza visto che la lettera "Ϙ" (qoppa) dello scritto del mosaico rappresenta il "simbolo fallico", il legame evidente tra ogni coppa, contenente tre pere, e la lettera alfabetica greca arcaica dello stesso nome, ci induce a ritenere che anche ogni coppa rappresenti il "simbolo fallico", al quale in entrambi i casi corrisponde un maschio del genere umano. Essendoci, sia nelle coppe con pere, sia nello scritto, un rapporto di uno a tre tra il maschio (Ϙ) e le femmine (Ѧ) del genere umano, tenuto conto, come visto, che in ognuno dei due angoli di sinistra del mosaico un cordone piegato a forma di fallo penetra gli altri tre a forma di vagina, tutto ciò ci induce a ritenere che all’epoca e nella regione in osservazione vigeva la poligamia, che consentiva ad ogni uomo di poter prendere in moglie al massimo tre donne. Ciò non toglie che le 6 pere, frutto proibito ad Adamo, possano simbolizzare il 6° giorno della creazione biblica, in cui lo stesso Adamo è stato creato (Genesi 1:26÷31), ed allo stesso tempo il 6° giorno del mese di gennaio, in cui nell’epoca in osservazione, come si vedrà meglio in seguito, per analogia si festeggiava il Natale, anniversario della nascita di Gesù Cristo. Inoltre, non si può sottacere il fatto che le 3 pere in ciascuna coppa simbolizzano anche il 3° giorno della creazione biblica, in cui sono stati creati gli alberi da frutta (Genesi 1:11÷13).
  Lo scritto del mosaico in osservazione è formato da otto lettere alfabetiche, pari al numero di lati di ogni ottagono approssimativamente regolare ivi rappresentato. Ciò è come se ognuno di questi ottagoni rappresenti una chiave di lettura del mosaico stesso a seconda del suo contenuto. L’ottagono di sinistra, che contiene il volto umano con lo scritto, ha come chiave di lettura del mosaico il sapere e, prima ancora, la conoscenza; l’ottagono di destra, che contiene l’alimento, ha come chiave di lettura dello stesso la produzione alimentare e, quindi, l’economia. Inoltre, i due quadrati approssimativamente uguali, che in effetti sono equivalenti, non in senso geometrico, ma in senso aritmetico, ad un ottagono regolare, perché, scomponendoli, i loro 8 lati possono essere ricomposti per ottenerlo, applicando lo stesso metodo con cui Platone nel "Timeo" scompone(va) i suoi solidi regolari con le facce a triangolo equilatero, per poi ottenerne, ricomponendoli, degli altri, ma diversi da quelli scomposti, hanno come chiave di lettura del mosaico in argomento la riproduzione umana, come in effetti è stato riscontrato in precedenza.
  Si riportano di seguito le pagg. 223, 224 e 225 del testo di Herbert CUTNER, intitolato: "Breve storia del sesso nelle religioni", Longanesi, Milano, 1972, importate dal blog "Libri Ghibellini", con cui l’autore in modo molto brillante descrive rappresentazioni a carattere sessuale riscontrate in ambito religioso, che accidentalmente sono emerse anche nella descrizione del mosaico in argomento e che la presente indagine non ha potuto omettere per necessità di chiarezza e completezza.
  ««Persino nella costruzione delle nostre chiese vi sono indubbiamente simboli di puro carattere fallico. È vero che la fantasia e l’immaginazione dei loro architetti hanno creato molti edifici di grande bellezza e, apparentemente, assai lontani da ogni suggestione sessuale. Ma la guglia o il campanile è certamente un reliquato del culto fallico. Lee Alexander Stone va assai più lontano; egli afferma che l’edificio della chiesa è direttamente fondato sul simbolismo sessuale. Egli dice:
  [Allorché uno entra in una chiesa lo fa attraverso una doppia porta (labia maiora, grandi labbra) quindi si trova nel vestibolo (vestibulum). Per andar oltre deve passare attraverso un’altra doppia porta (labia minora, piccole labbra); allorché raggiunge l’interno (vagina) egli vede davanti a sé l’altare (utero) e ad ogni lato dell’altare si possono vedere porte che conducono ad altre stanze (tube del Falloppio), dove il candidato al battesimo viene a contatto col prete o predicatore, ed è qui che egli riceve il seme della rigenerazione; egli torna indietro all’altare ed è battezzato (liquido amniotico) e lascia la chiesa come anima «rinata».
  Per quanto tutto questo possa apparire eccessivamente elaborato, non differisce molto dall’antica pratica di molte antiche e di alcune moderne religioni, di far passare i devoti attraverso aperture a forma di yoni, o fessure in lastre di pietra allo scopo di divenire fecondi, o «rinati»] o divenir lavati dai propri peccati. E questa apertura a forma di yoni è stata riprodotta in molte finestre di forma ellittica che adornano le nostre chiese, come pure le porte, recessi e altre aperture. Persino famosi dipinti religiosi non sono sfuggiti a questa forma ellittica. Dozzine di noti dipinti della Vergine Maria e di Gesù hanno un ellisse attorno, e in molti casi uno particolarmente suggestivo. In Utrecht vi è un dipinto di Elisabetta e di Maria, dipinto attorno al 1400, che mostra Gesù e Giovanni come embrioni chiusi in piccole ellissi. Molti altri esempi possono essere trovati nei lavori della Jameson, tutti tratti da pittori classici e da vecchi maestri, che provano oltre ogni dubbio che essi riconoscevano l’ellisse come simbolo dello yoni o della "porta della vita".
  Nella abbazia di Dumblane vi è una finestra che fu considerata da Ruskiri una delle più belle d’Inghilterra; Wall ne dà una riproduzione in Sex Worship. Ma non molti dei visitatori dell’abbazia che vedono questa finestra riconosceranno il suo simbolismo che è assolutamente realistico, e che mostra uno yoni con tutte le sue parti componenti, le grandi labbra, le piccole labbra, il clitoride, il vestibolo e l’orifizio. E Payne Knight nel suo Worship of Priapus dà le illustrazioni di altri resti fallici trovati in molte chiese cristiane.
  Il pesce come simbolo fallico è già stato citato. Psicologi moderni come Freud vedono in esso un simbolo dell’organo maschile, ma esso, specialmente la testa e la bocca, è stato altresì riconosciuto come simbolo femminile.»»
  Si coglie l’occasione per precisare, a questo punto, dato che la torta è a forma circolare e, apparentemente, non ellittica, che se in un ellisse si avvicinano sempre di più i due fuochi fino a farli sovrapporre, la figura ellittica assume la forma circolare con centro nel punto di sovrapposizione dei due fuochi. Per capire cosa sono i fuochi, basta fissare in due punti di una superficie piana di legno le estremità di uno spago, di lunghezza p.e. doppia della distanza tra i detti punti, con due chiodi conficcati per metà della loro lunghezza (od anche di meno) e con una matita che tiene teso lo spago tracciare la curva consentita da questo sistema di grafia. Ne verrà fuori un ellisse con i suoi due fuochi collocati nei punti in cui si trovano i chiodi. Se si tracciano in questo modo altri ellissi, via via che si avvicinano sempre di più i due chiodi, si ottengono ellissi sempre più tondi fino a quando, dopo che i chiodi entrano in contatto e le dette estremità si fissano su un sol chiodo, si ottiene finalmente la circonferenza di diametro pari alla lunghezza dello spago teso. Più sottili sono spago, chiodi e matita e più precise saranno le curve ottenute. In altre parole, la forma circolare non è altro che una particolare forma ellittica.
  Fin’ora ci si è imbattuti in due tipi di appetiti riguardanti il mosaico in discussione, quello alimentare e quello culturale. Si è visto in precedenza che la torta è formata da 20 file di tessere, di cui 13 circolari e 7 toroidali; se si considera la tessera centrale come una spira intorno al suo punto centrale, quest’ultimo essendo quello interno più lontano dal bordo, le file di tessere (chiuse) della torta risultano 21, che in caratteri greci è "". In questo caso la frase "῾ѦΠ KѦ ῾Ѧ ϘEϚ" dall’albanese della mia Spezzano letteralmente si traduce: "Apri 21, mangi troppo", con 21 la torta e, quindi, come si è visto in precedenza, il pube. Di conseguenza la suddetta traduzione assume la forma: "Apri pube, mangi troppo", con evidente riferimento all’appetito sessuale. Così il mosaico ci rappresenta con una semplicità eccezionale i tre appetiti esistenti in natura.
  Anche tutti i trapezi isosceli del mosaico simbolizzano la vulva. Così nel trapezio a sinistra (vulva) è stato introdotto il pesce (simbolo fallico), negli altri due trapezi adiacenti (vulve) sono state introdotte le coppe (come la lettera qoppa, simboli fallici) con le pere (seme), nei due trapezi a destra (vulve) le coppie di pesci (simboli fallici). A questo proposito si riporta il seguente passo, prelevato dalla voce "SIMBOLI" (TRAPEZIO) del portale di misteri archeologici e storici Sator ws di Lorena Bianchi e Antonella Verdolino, che pone piena luce su quanto testé affermato:
  «La forma dei genitali femminili durante la gravidanza e il parto assumono una caratteristica forma a trapezio, rispetto alla forma "a mandorla" che hanno in condizioni normali. Durante il parto la dilatazione della vagina fa assumere alla vulva questa particolare forma, certamente non sfuggita ai nostri antenati che iniziarono a raffigurarla nell’architettura e nella forma delle capanne, come accadde 30mila anni fa a Leperski Vir, in Serbia, una delle prime località europee colonizzate dagli uomini di Cro-Magnon, i primi dalle caratteristiche moderne. … A cominciare dall’Africa, dall’Egitto (la celeberrima Grande Galleria della Piramide di Cheope a Giza ha questa forma, ma anche molte altre piramidi e templi mostrano chiarissimi trapezi) fino ai tumuli protoceltici del nord Europa, dai pozzi sacri in Sardegna al clamoroso Antro della Sibilla di Cuma fino alle piramidi balcaniche, dal santuario megalitico di Perperikon in Bulgaria ...» Si riporta, a proposito, l’immagine fotografica soprastante del pozzo sacro di Santa Cristina in agro di Paulilatino (OR), importata dal sito Archeologia sarda, 2006 ®, di Mirko Zaru & Miriam Bagaladi.
  La forma ottagonale approssimativamente regolare contenente il volto umano, come l’altra contenente il pube sotto forma di torta o la torta a forma di pube, così come le 8 spire del cordone toroidale della torta od 8 riccioli del pube, le 8 lettere alfabetiche dello scritto, le 8 parole dello scritto, 4 nelle righe e 4 nelle colonne, la disposizione delle medesime lettere approssimativamente a forma di H = 8, gli 8 lati approssimativamente uguali della somma dei lati dei due quadrati del mosaico in esame, ciascuno dei quali simbolizza anche i 4 vangeli canonici, oltre alle 4 essenze di cui parla(va) Platone ed alla 4 stagioni, ed il corrispondente numero 8, in diverse tradizioni Orientali e nello stesso Cristianesimo è strettamente connessa con la Resurrezione. La "Moschea, Tempio o Cupola della Roccia" a Gerusalemme, fatta edificare dal califfo ʿAbd al-Malik ibn Marwān fra il 687 e il 691 a guisa di martyrium, struttura finalizzata alla conservazione e alla venerazione di sante reliquie, sfruttando l’opera di artigiani bizantini forniti dall’Imperatore, eccellente esempio di arte bizantina del periodo centrale, al cui centro trovasi la roccia, ritenuta dai musulmani come il posto da cui Maometto sarebbe asceso al cielo nel suo miracoloso viaggio notturno narrato nel Corano, e riprodotta anche nel sigillo Templare, è a pianta ottagonale regolare. La forma ottagonale regolare ed il numero 8 furono importanti soprattutto nell’arte Cristiana per il significato di questo numero, come si enuncia nelle parole di Sant’Ambrogio: "[...] era giusto che l’aula del Sacro Battistero avesse otto lati, perché ai popoli venne concessa la vera salvezza quando, all’alba dell’ottavo giorno, Cristo risorse dalla morte". Anche le fonti battesimali spesso a forma ottagonale regolare ci parlano della resurrezione di Cristo. Lo stesso ἸHΣOŶΣ, nome greco di Gesù, essendo nella numerazione greco-antica la giustapposizione dei numeri puramente additiva ed essendo = 10, H = 8, Σ = 200, O = 70, Y = 400, Σ = 200, fornisce il numero 888, cioè 8 centinaia, 8 decine e 8 unità. «[…] nel simbolismo del linguaggio biblico, l’ottavo giorno allude al "giorno dopo il sabato", al "sabato senza tramonto" dello shalom eterno, al giorno della resurrezione di Cristo che lo inaugura» (+ Dionigi card. Tettamanzi, Arcivescovo di Milano, Omelia, Milano - Duomo, 1° gennaio 2008). Dopo i sei giorni della creazione e dopo il settimo, il sabato, l’ottavo simbolizza l’eternità, la resurrezione di Cristo e quella dell’uomo. Inoltre, l’8 si ritrova anche nel vangelo canonico secondo Giovanni. Gesù era comparso agli apostoli la domenica della sua resurrezione in assenza di Tommaso, chiamato Dìdimo, uno dei dodici. «Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: "Pace a voi!"» (Giovanni 20:26, Liber Liber). Infine, l’8 si ritrova nella circoncisione giudaico-ebraica. Come Dio aveva ordinato ad Abramo: "Vi lascerete circoncidere la carne del vostro membro e ciò sarà il segno dell’alleanza tra me e voi. Quando avrà otto giorni, sarà circonciso tra di voi ogni maschio di generazione in generazione, tanto quello nato in casa come quello comperato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua stirpe" (Genesi 17:11÷12, Liber Liber), così avvenne anche per Gesù, figlio adottivo di Giuseppe discendente di re Davide e, quindi, di Abramo. "Quando furon passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre" (Luca 2:21, Liber Liber).
  Se nella prima fase di questa passeggiata, non avendo a disposizione i successivi elementi emersi fin qui, è stato ritenuto che il personaggio del mosaico de quo potesse rappresentare "simbolicamente un robusto giovane allevatore di bestiame, in particolare di bovini", alla luce di quanto emerso si può ritenere che lo stesso possa anche rappresentare un uomo troppo (ϘEϚ) colto, come un predecessore di Cirillo e Metodio, che scolarizzava la popolazione di lingua albanese per evangelizzarla e che è intento a pronunziare le due frasi (lettura in verticale compresa) dello scritto del mosaico in argomento, oppure, come visto in precedenza, un "Gigante" od un "Atleta", dato che, come si evince dal mosaico stesso, ne ha le sembianze, oppure l’immagine che si aveva di Cristo nell’epoca in osservazione.
  Se, a questo punto, si prendono in considerazione i due quadrati del mosaico, ciascuno con i due trapezi, quello sottostante e quello sovrastante, è fuori dubbio che ognuna di queste due figure rappresenti una clessidra. Inoltre il quadrato di sinistra ed i tre trapezi adiacenti formano una T (tau coricata) assomigliante ad una croce patente scorciata, essendo i trapezi contenenti le coppe con le pere le braccia e l’altro trapezio con l’adiacente quadrato il piede. Se le tre pere nella coppa inferiore (col piede maggiore) della clessidra rappresentano decine e quelle nella coppa superiore unità, tutte la pere nella clessidra rappresentano un tempo pari a 33 anni. Il pesce del trapezio di sinistra è stato disposto in verticale con la convessità tipica dello spirito dolce per rappresentare la lettera greca , mentre le due coppie di pesci nella clessidra di destra sono state disposte in modo da formare ciascuna la lettera greca X orizzontale (schiacciata), affinché l’angolo fra le due aste (pesci) che la compongono alluda all’angolo fra il piano dell’eclittica e il piano dell’equatore celeste. La stessa lettera X nella numerazione greca antica rappresenta 6 centinaia [pari anche agli anni di Noè quando venne il diluvio (Genesi 7:6, 11)]. Ambedue le clessidre hanno la forma della lettera greca Ξ, che nella stessa numerazione rappresenta 6 decine, ed, inoltre, la clessidra di sinistra contiene complessivamente 6 pere, così come i pesci del mosaico sono 6, se si include, come visto, quello simbolizzato dalla lettera alfabetica greco-arcaica "Ϙ" dello scritto del medesimo. La lettera "Ϛ", στίγμα, pl. στίγματα, marchio, stigmata, pl. marchi, stigmate, dello scritto del mosaico numericamente, come visto, rappresenta il 6, che simboleggia, così come le 6 pere, le stigmate o stimmate. «L’Uno, tanto nell’antica filosofia platonica e aristotelica quanto nella teologia cristiana, ha sempre rappresentato il Dio, e lo stesso significato divino mantiene anche nella religione ebraica attraverso la lettera quiescente âlef che, usata come simbolo aritmetico, indica appunto il numero 1. Il 6, invece, che in ebraico corrisponde alla sesta lettera dell’alfabeto e cioè la wâw, il cui termine significa "chiodo", si collega ai sei giorni della Creazione (sei sono le direzioni del mondo fisico – sud, est, nord, ovest, nadir, zenit –, sei le âlef del primo versetto della Toràh, sei le lettere della prima parola ebraica della Bibbia tradotta con "In principio", sei le punte della stella ebraica) e, secondo Fabre-d’Olivet (La langue hébraïque retituée, 1815), "oltre ai vari significati, essa è il legame di tutte le cose, il segno congiuntivo […]. Un segno, noterò infine, con il quale nessuna parola della lingua ebraica inizia, per cui non dà luogo a radicale alcuno" (Cit. in G. Mandel, L’alfabeto ebraico, Mondadori, 2000, p. 39)» (Serse Cardellini, "Poesia Aurea", Introduzione, pag. 9). Così il 6, mentre in greco simboleggia direttamente le stigmate, in ebraico simboleggia indirettamente le stesse, per il suo significato di chiodo (pl. chiodi) ed, estensivamente, punta di lancia (che ha trafitto il costato) e spine metalliche della corona, che hanno causato le stigmate di Gesù. Da quanto precede risulta: che il volto umano ha alle spalle una croce, che lo stesso volto è inserito in una figura ottagonale (rappresentante la resurrezione), così come il pube a forma di torta con otto spire o, viceversa, la torta a forma di pube con otto riccioli, che 33 anni non possono che riferirsi al medesimo, che le lettere greche e X non possono che essere le iniziali di HΣOŶΣ XP(E)IΣTÒΣ, cioè Gesù Cristo, di cui la X di sotto rappresenta Cristo in terra (uomo), mentre la X di sopra rappresenta Cristo risorto (con la labirintica triplice cinta quadrata interposta attraverso cui avviene questo passaggio, cioè la resurrezione), che i pesci del mosaico rappresentano il simbolo cristiano più famoso dell’epoca in osservazione, che il numero 6, ricorrente 7 volte (nella Bibbia il numero 7 è ritenuto perfetto: il mondo fu creato in 7 giorni, le 7 vacche grasse e le 7 magre nella storia di Giuseppe; il numero 6, che si avvicina molto al numero perfetto, sta a significare ciò che l’uomo vuole diventare, ma non lo diventerà mai senza l’aiuto di Dio, cioè perfetto; il numero 8, invece, sta ad indicare il giorno dopo la creazione, l’inizio di una vita nuova, quando Gesù Cristo governerà l’umanità), rappresenta il giorno della nascita di Cristo. Difatti, il Dies Natalis Solis Invicti, la celebrazione dedicata alla nascita del Sole (Mithra: divinità di origine persiana) invincibile per aver sconfitto le tenebre [in cui, per lo spostamento dell’orbita diurna apparentemente percorsa dal sole, dovuto alla rivoluzione terrestre intorno ad esso, la stessa incomincia a risalire, permettendo una maggiore illuminazione dell’emisfero settentrionale terrestre, mantenendosi invece all’altezza minima intorno al perielio (solstizio d’inverno), in cui la terra transitava e transita, in seguito alla riforma gregoriana del calendario, tra il 21 e il 22 dicembre, fino al 24 dicembre (essendo impercettibile ad occhio nudo in questo intervallo di tempo la sua piccolissima risalita); ciò in quanto l’asse di rotazione terrestre nel suo moto di rivoluzione intorno al sole modifica la sua inclinazione, che non varia rispetto al piano dell’eclittica, mentre rispetto al sole, il cui centro trovasi nello stesso piano, questa inclinazione passa da un valore massimo in corrispondenza dell’afelio, la terra mostra la massima esposizione della sua calotta artica, ad un valore opposto e, quindi, minimo in corrispondenza del perielio, la terra mostra la massima esposizione della sua calotta antartica; l’inclinazione dell’asse terrestre, invece, è ininfluente in corrispondenza degli equinozi, in cui qualsiasi inclinazione dello stesso nel suo piano perpendicolare al piano dell’eclittica, anche se posto virtualmente nei casi estremi sul piano dell’eclittica o perpendicolare ad esso, lascia invariata l’esposizione al sole (che risulta sempre perpendicolare all’equatore) dei due emisferi terrestri, ma da questi punti dell’orbita inizia l’inversione della loro esposizione solare dovuta a questa inclinazione, come si può constatare dalla foto-composizione riportata a fianco di un analemma, che mostra il percorso del sole come è apparso sopra Girona alle ore 9 e 15 minuti primi del mattino dal marzo 2003 al marzo 2004 con i suddetti massimo, minimo ed inversione sul suo asse di simmetria ed avente per sfondo Cap de Creus National Park, situato nella parte est della Spagna (Photo by Juan Carlos Casado, TWAN)], introdotta a Roma da Eliogabalo (imperatore dal 218 al 222) e ufficializzata per la prima volta dall’Imperatore Romano Aureliano nel 273 d.C., che il 25 dicembre dello stesso anno consacrava il Tempio del Sol Invictus nel campus Agrippae (l’attuale piazza San Silvestro), è stata gradualmente sostituita dal IV secolo, dopo gli editti di Nicomedia (311) e di Milano (313), da quella cristiana. Il Natale non compare tra i primi elenchi di celebrazioni cristiane di Sant’Ireneo (Smirne, 130 ÷ Lione, 202) e Tertulliano (Cartagine, 155 circa ÷ 230 circa); le chiese cristiane piuttosto festeggiavano l’Epifania (dal greco ΠIΦÁNEIA: manifestazione, comparsa, apparizione, nascita). Fermo restando il fatto che la nascita di Cristo non può ritenersi storicamente certa, in Gallia ancora nel 361 d.C. la natività veniva celebrata il 6 gennaio; ad Alessandria d’Egitto lo sarà dal II fino al V sec. d.C.; a Gerusalemme fino al VI. Sant’Epifanio di Salamina (Cipro), nato ad Eleuteropoli in Palestina tra il 310 ed il 315, menziona intorno al 376 d.C. una celebrazione dai tratti gnostici ad Alessandria d’Egitto, in cui la notte tra il 5 e il 6 gennaio un disco solare inquartato, tipo "croce celtica", simbolo della vergine Korê, era condotto in processione attorno a una cripta al canto: "Oggi a quest’ora Korê ha partorito l’Eterno", festeggiando così la nascita del dio Eone {αἰών, -ῶνος, ὁ [aion] (s. m.) <=> eternità, l’Eterno} dalla vergine Korê {κόρη, -ης, ἡ [kore] (s. f.) <=> fanciulla, giovinetta}. A Cipro, nell’ultimo quarto del IV secolo, lo stesso Sant’Epifanio dichiara che Cristo era nato il 6 gennaio. Efrem il Siro [Nisibis (Nusaybin, Turchia), 306 ÷ Edessa, 9 giugno 373], teologo e santo siriano, con i suoi inni riguardanti l’Epifania evidenzia che la Mesopotamia ancora festeggiava la nascita di Cristo il 6 gennaio. Nello stesso tempo in Armenia la data di dicembre non veniva considerata e gli Armeni ancora oggi festeggiano il Natale il 6 gennaio. Il filosofo cristiano Clemente di Alessandria (150 ÷ 215) intorno al 200 d.C. (Stromata) riferisce che in Egitto i Basilidiani celebravano l’Epifania, ricorrenza della nascita di Gesù Cristo, il 15 o l’11 Tybi (10 o 6 gennaio). Il termine epifania deriva dal greco ΠIΦÁNEIA, che può significare manifestazione, apparizione, venuta, presenza divina. Nella forma ἘΠIΦÁNIA, secondo San Giovanni Crisostomo, acquista il significato di "Natività di Cristo". In Oriente infatti fino all’inizio del VI sec. con il nome di Epifania si considerava la festa del 6 Gennaio, in cui si festeggiava la nascita di Cristo. La tradizione faceva risalire questa festa al suddetto culto ricordato da Sant’Epifanio di Salamina. La scrittrice romana Egeria del IV ÷ V secolo scrive nell’Itinerarium (385 d.C.) di essere rimasta profondamente impressionata dalla festa della Natività di Gerusalemme, che aveva aspetti prettamente natalizi; il vescovo si recava di notte a Betlemme, per poi ritornare a Gerusalemme lo stesso giorno 6 gennaio della celebrazione (per i giudei e gli ebrei il tramonto è il termine e l’inizio del giorno). Costantino di Antiochia alias Cosmas Indicopleustes, mercante siriaco vissuto nel VI secolo, afferma che anche alla metà del VI secolo la chiesa di Gerusalemme considerava, basandosi sul vangelo di Luca, il giorno 6 gennaio (del battesimo) giorno della nascita di Gesù in quanto essere divino. Quanto precede si può sintetizzare nel senso che nel corso del IV sec. Oriente ed Occidente celebravano la ricorrenza della natività rispettivamente il 6 gennaio e il 25 dicembre; poi, durante il VI sec. sotto l’influsso Occidentale, anche l’Oriente, se non tutto, accettò la data del 25 dicembre per questa ricorrenza.
  Quanto esaminato ci consente di affermare che l’immagine umana del mosaico della basilica di Mesaplik è quella di Gesù Cristo, mentre il pube, rappresentato mediante una torta circolare, oltre che con le due losanghe (quadrati), sette lettere dello scritto e tutti i trapezi, altro non simbolizza che il concepimento (cum capere), la gravidanza ed il parto del medesimo. Il sesto pesce e, in quanto tale, simbolo fallico, rappresentato, come visto, da/con la lettera "Ϙ" dello scritto, oltre a simboleggiare con le altre sette lettere il concepimento, simbolizza anche la circoncisione di Gesù. Le due coppe nella clessidra, che qui rappresentano urne cinerarie, contenenti ciascuna una terna di pere, simbolizzano, se singolarmente prese, il terzo giorno della resurrezione, cioè la Domenica o, meglio, il Dies Solis, oppure la trinità (tre in uno, cioè uno e trino), con la componente carnale quella inferiore, di puro spirito la superiore (con la labirintica triplice cinta quadrata interposta attraverso cui avviene questo passaggio, cioè la resurrezione), se, invece, accoppiate, con la terna superiore indicante tre decine, l’età della sua morte, mentre le 6 pere, essendo 6 = Ϛ, cioè στίγμα, pl. στίγματα, marchio, stigmata, pl. marchi, stigmate, non possono, tra l’altro, non simboleggiare che le stigmate o stimmate dello stesso Gesù. Le due figure geometriche a forma ottagonale approssimativamente regolare, le otto spire del cordone toroidale della torta od otto riccioli del pube, le otto lettere e le otto parole, 4 orizzontali e 4 verticali, dello scritto simbolizzano la resurrezione. Le due clessidre a forma del numero Ξ (6 decine), il numero Ϛ = 6 dello scritto, le 6 centinaia del numero X, rappresentato da ciascuna delle due coppie di pesci, le 6 pere ed i 6 pesci, come detto, simbolizzano, oltre alle stigmate (stimmate), il giorno di nascita. Anche la clessidra a destra del mosaico, formata dai due trapezi isosceli, contenenti ciascuno due pesci, con il quadrato ad essi adiacente, se messa in relazione con le iniziali e X di HΣOŶΣ XP(E)IΣTÒΣ e, quindi, con il pesce all’interno del trapezio a sinistra del mosaico simbolizzante = 10 e ciascuna coppia di pesci più piccoli di valore B = 2, simbolizzanti X, ci fornisce il numero IB = 12 ore, sia per la parte inferiore che per la parte superiore di essa. Le 12 ore della parte inferiore di questa clessidra riferentisi alla notte e le 12 ore della parte superiore della stessa riferentisi al giorno, entrambe ottenute con i pesci che formano le iniziali di Gesù Cristo, ci inducono a ritenere di essere di fronte alla resurrezione di Cristo, avvenuta nel giorno in cui notte e giorno hanno la stessa durata, cioè nel giorno dell’equinozio, che per tradizione cristiana bisogna ritenere essere quello di primavera e che, tenendo conto che ogni 128 anni lo stesso si spostava, calendario giuliano vigente, di un giorno in avanti se si va indietro negli anni e che nel 325, anno in cui si svolse il Concilio di Nicea, cadeva il 21 marzo, doveva perciò cadere il 23 marzo o, con minore probabilità, il 24 seguente. Così, mentre la clessidra di sinistra, come visto, ci fornisce gli anni della resurrezione di Cristo, quella di destra, invece, ci da mese e giorno. Ma se si considera che le due coppe (calici) contenenti le pere rappresentino calici contenenti vino di pera, simbolizzante il sangue di Cristo, il mosaico nel suo insieme simbolizza anche la sacra cena, dato che il volto umano è quello di Gesù Cristo, il pane, simbolizzante il corpo di Cristo, è rappresentato dalla torta e dai mostaccioli, mentre i 12 apostoli sono simbolizzati dal suddetto numero 12, ottenuto con il pesce singolo e la coppia inferiore. L’altro 12, ottenuto con il singolo e la coppia superiore, si può ritenere dal contesto che simbolizzi i 12 apostoli in fuga mentre Gesù veniva arrestato da soldati romani o da guardie del Sinedrio (tipico esempio dei nostri tempi), come testimoniato dagli evangelisti: "Allora i discepoli, abbandonatolo, se ne fuggirono tutti" (Marco 14:50, Nuova Diodati) e "[...] Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono" (Matteo 26:56, C.E.I.). Le due coppie di pesci, poste accanto al pane a torta all’interno dell’ottagono ed a mostaccioli all’interno del quadrato di destra, così come il pesce singolo accanto al pane a mostaccioli dell’altro quadrato, stanno a simbolizzare il momento in cui il pane diviene ἸXΘÝΣ, cioè corpo di Cristo Figlio di Dio.
  Il mosaico in esame fornisce anche due volte il numero della bestia, che simboleggia, secondo l’apostolo Giovanni, una della principali potenze del male. Il suo numero è il 666, che potrebbe indicare una persona posta ai vertici ma che fa un utilizzo negativo dei poteri. Questa persona è aiutata da un altro essere delle tenebre, definito seconda bestia, falso profeta o bestia della terra. "Vidi salire dal mare" (il mare nel simbolismo biblico indica una miriade di genti e popoli) "una bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo" (Giovanni, Apocalisse 13:1, C.E.I.). Il numero X = 600, formato dalla coppia di pesci superiore della clessidra di destra, la stessa clessidra simile al numero Ξ = 60 ed il numero Ϛ = 6 dello scritto o dei 6 pesci, compreso, come visto, quello simbolizzato dalla lettera alfabetica greco-arcaica "Ϙ" dello scritto, forniscono la prima bestia. Il numero X = 600, formato dalla coppia di pesci inferiore della clessidra di destra, la clessidra di sinistra simile al numero Ξ = 60 ed il numero Ϛ = 6 delle sue 6 pere forniscono la bestia della terra. Queste clessidre possono anche rappresentare "le cateratte del cielo" che "si aprirono", facendo cadere con furia bestiale "la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti" (Genesi 7:11÷12) e dopo 40 giorni "furono chiuse e fu trattenuta la pioggia dal cielo" (Genesi 8:2).
  Si riporta a fianco l’immagine del mosaico di Cristo Pantocratore con la legenda ἸC XC (Dafni, Grecia, ca. 1080-1100). In questo mosaico ἸC XC è un acronimo ottenuto dalla prima ed ultima lettera delle due parole Gesù e Cristo, scritte con le lettere dell’alfabeto greco [ΗΣΟŶΣ ΧΡ(E)ΙΣΤÒΣ - si noti che la lettera finale sigma viene scritta nella forma lunata od onciale, che nonostante la somiglianza non è direttamente collegata alla C latina, né alla Ϛ (stigma) greca arcaica e neanche alla ς (sigma) minuscola in posizione finale]. Compare molto spesso sulle icone ortodosse, dove il monogramma può essere diviso: "ἸC" nella parte sinistra dell’immagine e "XC" nella parte destra, come è stato fatto anche nel mosaico della basilica di Mesaplik, però senza la lettera "C" (sigma onciale). Il tratto orizzontale di solito sovrascritto alle lettere è un segno paleografico per indicare un’abbreviazione, che, però, manca nel mosaico della basilica trattata. La detta sigma e il detto tratto nel mosaico della basilica di Mesaplik non vi compaiono, visto la presenza di tanti altri simboli, in modo particolare quello dei pesci, che non lasciano dubbi per l’individuazione del relativo soggetto.
  A conferma si riporta l’immagine a fianco dell’affresco di Cristo Pantocratore con la legenda X (Abazia di Sant’Angelo in Formis, frazione di Capua, ca. 1100).
  Nel mosaico della basilica di Mesaplik Cristo è raffigurato col pileo (con le due estremità del nastro ferma pileo svolazzanti posteriormente), che in genere era di feltro ma poteva essere anche di cuoio e che veniva usato dai ceti meno abbienti, in particolare da marinai, pescatori e, in generale, lavoratori manuali ed era considerato, fin dall’antichità, uno dei simboli della libertà, perché aveva la stessa foggia del berretto (brigio[4]) che veniva dato agli schiavi quando diventavano liberti. Castore e Polluce, figli di Giove, erano in genere rappresentati col pileo. Dal pileo deriva lo zucchetto degli ecclesiastici, in quanto pescatori di anime. Essendo il pileo a forma di coppa ed essendo lo stesso considerato uno dei simboli della libertà e particolarmente usato da pescatori, i pesci e le coppe con le pere introdotti nel mosaico non possono non riferirsi all’immagine umana col pileo, cioè a Cristo Pescatore e Liberatore.

  Si riporta la sovrastante immagine fotografica di un denario d’argento, coniato il 43-42 a.C. da Marco Giunio Bruto, governatore della Macedonia per nomina senatoriale, importata dal sito WILDWINDS.COM (Example No. 3), con al dritto la testa di Bruto rivolta a destra ed i nomi di BRVT(us) IMP(erator) e L(ucius) PLAET(orius) CEST(ianus), magistrato monetale al seguito di Bruto e responsabile della zecca itinerante che batteva le monete necessarie per pagare le truppe. Il titolo di "imperator", concesso a Bruto dopo l’acclamazione delle truppe, era semplicemente il titolo conferito dal Senato al generale vittorioso che aveva ricevuto l’acclamazione dalle truppe. Al rovescio il pileo (pileus <=> berretto, simbolo della libertà) tra due daghe (armi servite per giustiziare Cesare alle Idi di Marzo del 44 a.C.) con scritta EID(us) MAR(tii). Cassio Dione, in Storia romana, XIVII.25.3, riporta, a proposito, che: "Bruto incise sulle monete che coniò la sua immagine ed un pileo tra due pugnali, indicando con ciò e con l’iscrizione, che lui e Cassio avevano liberato la patria ...". La punta riportata sulla sommità del pileo in testa all’immagine del Cristo del mosaico della basilica di Mesaplik simbolizza la punta della daga della libertà. Il nome di questa punta lignea (ulivo), in latino apex (apice), fissata ad esso con filo di lana, è poi stato trasferito a tutto il pileus, come si può constatare dalla seguente immagine fotografica di un denario d’argento di 3,81 g, coniato il 49-48 a.C. dalla zecca militare al seguito di Gaio Giulio Cesare ed importato dal sito CoinArchives.com, recante: al dritto, l’elefante [simbolo di Cesare, in quanto il primo dei Cesari, secondo l’opinione dei più colti, fu chiamato così per aver ucciso in combattimento un elefante, animale chiamato kaesa (caesai) dai Mauri (Berberi)] che avanza verso destra, calpestando un serpente, con in esergo: CAESAR; al rovescio, un attingitoio, un aspersorio, un’ascia e l’apex, il quale ultimo, per chi lo indossava, rappresentava il simbolo della vittima sacrificale o aveva lo stesso significato del rivestirsi della pelle della vittima sacrificale. L’apex era indossato anche dai tre Flamines maiores e dai dodici minores, di cui i maiores erano sacerdoti preposti al culto di Giove, Marte e Quirino. Il flamen Dialis, addetto al culto di Giove, godeva grande reputazione presso il popolo; a lui erano conferiti onori e poteri particolarissimi. La maggior parte degli storici afferma anche che i flamines usassero, come tutti i sacerdoti romani, la toga praetexta, indossata sulla tunica talaris e reggevano in mano, come simbolo, una bacchetta di ulivo. Anche i Sàlii Palatini, sacerdoti consacrati a Marte e la cui fondazione, secondo lo storico Plutarco, risale al re Numa Pompilio, il quale aveva dato loro in custodia gli scudi sacri, detti ancilia (che rappresentavano l’autorità giuridica), uno dei quali, l’Ancile (scudo ovale tagliato sui due lati), l’aveva ricevuto direttamente da Marte Gradivo, mentre gli altri erano copie perfette fatte forgiare dal fabbro Mamurio Veturio, così che fosse impossibile ai nemici di Roma sottrarre quello autentico, si coprivano il capo con l’apex e reggevano con la destra una bacchetta con la quale percuotevano questi scudi appesi, ognuno, ad una lancia (le hastae Martiae, che rappresentavano l’autorità militare) e portati a spalla per le vie di Roma da due schiavi. Erano dodici uomini prestanti, pari al numero degli scudi e delle lance medesime, di bell’aspetto e relativamente giovani, cooptati tra i membri delle più nobili famiglie (anche in epoca più tardiva). Indossavano una tunica color porpora, ornata con ricami d’oro e fermata alla vita da un cingulum. Sopra la tunica portavano la toga trabea. Lo stesso copricapo veniva indossato dai Salii Quirinales, istituiti da Tullo Ostilio dopo la vittoria sui Sabini. Erano anch’essi dodici sacerdoti scelti fra le famiglie nobili, in principio solo della tribù dei Tities, ed erano consacrati al dio Quirinus. L’apex dei sacerdoti romani, oltre che dai Flamines e dai Salii, era indossato anche dai Pontifices, collegio sacerdotale che presiedeva alla sorveglianza e al governo del culto religioso, nominava le Vestali, i Flamines e il Rex sacrorum (sacerdote esercitante le funzioni religiose compiute un tempo dai re). Questo collegio ha avuto per anni, verso la fine dell’epoca monarchica e l’inizio di quella repubblicana, anche il totale controllo del diritto romano. Gaio Giulio Cesare fu capo di questo collegio, cioè Pontefice massimo, dal 63 al 44 a.C. (carica questa che giustifica, come visto, la presenza dell’apex nel rovescio delle sue emissioni monetali), così come i suoi successori, fino al 375, quando Graziano declinò tale onore, anche per incompatibilità con la religione cristiana, che all’epoca era religione di stato assieme a quella del Sol Invictus. Quest’ultima, però, restò in auge fino al celebre editto di Tessalonica (Salonicco), conosciuto anche come Cunctos populos, di Teodosio I, Graziano e Valentiniano II del 27 febbraio 380, in cui questi imperatori, il primo d’Oriente e gli altri delle due parti d’Occidente, stabilirono che l’unica religione di stato doveva essere il Cristianesimo, rinominando, inoltre, il 3 novembre 383 dies dominicus (Giorno del Signore), in italiano domenica, la festività settimanale dies Solis. Con successivi Decreti emessi da Teodosio I il 24 febbraio (Nemo se hostiis polluat) a Milano, l’11 maggio a Concordia ed il 16 giugno 391 ad Aquileia e l’8 novembre 392 (Gentilicia constiterit superstitione) a Costantinopoli, rimasto nel frattempo unico imperatore, veniva bandito e perseguitato ogni altro culto con pene amministrative, che potevano arrivare anche all’esborso di 15÷30 libbre d’oro, perdita di diritti civili, confisca delle abitazioni nelle quali "siano stati offerti sacrifici d’incenso", fino all’accusa di reato di lesa maestà, per aver "immolato una vittima sacrificale o consultato viscere".
  Osservando la testa di Cristo con l’apex del mosaico della basilica di Mesaplik, circondata da frutti di terra, le pere, e frutti di mare, i pesci, ne scaturisce che questa immagine da l’idea di un frutto con il proprio gambo o peduncolo, al punto da simbolizzare non solo il frutto della Vergine Maria, ma addirittura il vero e proprio frutto proibito, per il quale questo stesso frutto è venuto dal cielo per la salvezza dell’umanità.
  Sia il beccaccino, cioè la Scolopax Gallinago, Linnaeus 1758, per il suo vistoso becco o 'punta' o, in romanesco, pizzo col suffisso di origine germanica -arda (cui è "legata quasi sempre l’idea di qualcosa di eccessivo e di esagerato"), sia il caratteristico cappello a doppia punta (feluca), che erano soliti portare le guardie municipali o comunali romane (pizzardoni) tra il Settecento e l’Ottocento, sono chiamati pizzarda. Perciò, proprio per l’associazione tra il beccaccino e la feluca, ancora in uso nell’Ottocento nelle cerimonie presso diplomatici, generali e ammiragli, nonché dai pizzardoni, derivò l’estensione semantica del termine pizzarda, per indicare, oltre a questa specie aviaria, anche il copricapo a punta. Nella lingua arbëresh la parola "shapkë" significa: cappello, mentre "shapkë uji", che in albanese significa: beccaccino, nella lingua arbëresh letteralmente significa: cappello d’acqua, con evidente riferimento al beccaccino, che per quanto detto in precedenza ha la forma della feluca. Dall’esame del mosaico della basilica di Mesaplik si è visto che Cristo è raffigurato con l’apex, che veniva usato in particolare da alcuni collegi sacerdotali, marinai, pescatori e liberti ed era, perciò, considerato uno dei simboli della libertà. Da ciò si può ritenere che il beccaccino dell’immagine fotografica riportata a fianco, importata dall’articolo: "BAZILIKA PALEOKRISTIANE E MESAPLIKUT", ricavato in un quadrilatero del mosaico della navata centrale di questa basilica, simbolizzi proprio questo copricapo, cioè l’apex.
  Il quadrato a sinistra dell’immagine del volto di Cristo del mosaico con il sottostante trapezio isoscele forma la lettera dell’alfabeto greco "A", mentre l’ottagono approssimativamente regolare, contenente la stessa immagine, con i due trapezi adiacenti inferiori forma la lettera "Ω", che sono la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco e che simbolizzano sia Gesù Cristo che lo stesso Dio, come si rileva e si rivela dai seguenti versetti dell’Apocalisse di (San) Giovanni: "Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!" (Apocalisse 1:8, Liber Liber), "Ecco sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita." (Apocalisse 21:6, Liber Liber), "Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine." (Apocalisse 22:13, Liber Liber), "Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo" (Apocalisse 1:17, Liber Liber).

  Il bue (sacrificale), nello scritto albanese del mosaico: "" (riprodotto alato nell’immagine fotografica a fianco), è anche il simbolo dell’evangelista Luca, perché la sua narrazione inizia con la storia di Zaccaria, padre di Giovanni Battista, sposo di una delle figlie di Aronne, Elisabetta, cugina di Maria Vergine, e sacerdote del Tempio di Salomone a Gerusalemme al tempo di Erode il Grande, re della Giudea. La tradizione pagana è piena di immagini del bue sacrificale, come nelle metope delle trabeazioni, ma anche in ben note rappresentazioni di sacrifici alle divinità. Basta ricordare quella alla base dei Decennali nel Foro Romano di epoca dioclezianea o l’altra dell’Ara Pietatis di epoca claudia, oggi a Villa Medici, oppure il pannello in onore di Marco Aurelio. Tale atroce destino sacrificale deve essere il motivo per cui in epoca paleocristiana, avendo il bestiario un ruolo fondamentale, addirittura superiore a quello schematico della croce, l’immagine del bue destinato al sacrificio, ritratto in tutta la sua potente mansuetudine con le corna sollevate verso l’alto, simbolizzava proprio Gesù Cristo. Si riporta di seguito l’immagine fotografica del Mitreo di Pisa, Camposanto Monumentale (autore della foto: LoneWolf1976, licenza del relativo file: Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0 Unported), in cui Mithra col berretto frigio (apex) afferra per le froge il toro e gli affibbia una pugnalata nel fianco (tauroctonia); compaiono, inoltre: in alto a sinistra il Sol (Invictus), riconoscibile dalla sua fiammeggiante corona; in alto a destra la Luna, simbolo della notte (Genesi 1:14÷16), riconoscibile dalle sue corna bovine a falce (lunare), con il velo, equivalente femminile dell’apex; il corvo, messaggero di sperma del Sol fecondatore della natura e, perciò, alter ego in terra pagana dello Spirito Santo cristiano, posato in cima al cippo, simbolo fallico, come i cippi agricoli in Puglia, Albania e Grecia; i dadofori o portatori di fiaccole Cautes e Cautopates con lo stesso berretto, il primo dei quali porta la fiaccola alzata, l’altro abbassata, per rappresentare il ciclo solare dall’alba al tramonto. Sia in questa rappresentazione che nel mosaico della basilica di Mesaplik compare una divinità con l’apex, ma mentre nel Mitreo la divinità pagana uccide direttamente il bovino, permettendo allo scorpione di alimentarsi della carne e dello sperma del testicolo afferrato (acchelato) ed al cane ed al serpente del sangue sgorgante dalla relativa ferita, per simbolizzare un cenacolo pagano, nel mosaico Cristo invoca lo smembramento e l’alimentazione umana dello stesso come allusione alla sacra cena.
  In precedenza si è visto che se nel secondo rigo dello scritto del mosaico si associa al simbolo fallico "Ϙ" ed al simbolo della vulva "Ѧ", rispettivamente, il bue, in albanese "ϘѦ", di cui questo simbolo è la lettera iniziale, e la vacca, si comprende anche perché la lettera "Π" è stata realizzata piccolina, in quanto rappresenta di profilo il frutto dell’unione tra il bue e la vacca, cioè il vitello, che li segue. Adesso, però, è evidente che, simbolizzando la lettera dell’alfabeto greco "Ѧ" Gesù ed essendo "Π" anche l’iniziale della parola italo-albanese scritta con caratteri greci "ΠOYΛΛѦPI", di cui nella pronuncia spezzanese non si sente la doppia e la cui traduzione è "l’asinello", queste tre lettere simbolizzano anche rispettivamente: l’asinello, Gesù bambino (il bambinello, in spezzanese con caratteri greci: "BOMINIϚI") ed il bue, mentre la lettera Ϛ dello stesso scritto simbolizza la stalla (nel Protovangelo di Giacomo della metà del II secolo: grotta) della natività, la lettera "K", ruotata in senso antiorario di un quarto di periodo, la mangiatoia, la lettera "Ѧ" dell’ultimo rigo Gesù in vita terrena, in morte e seppellito, la lettera "Ѧ" realizzata più grande del primo rigo la resurrezione di Gesù ed infine i tre denti della lettera "E" simbolizzano i tre Re Magi. Così le due coppe (calici) rappresentate nel mosaico simbolizzano anche l’ultima cena, durante la quale Gesù passò la propria coppa ai discepoli per farli dissetare, mentre le pere in esse contenute, simbolizzando il frutto proibito, simbolizzano anche Gesù e la Vergine ed in particolare, come già visto, i suoi 33 anni di vita terrena, in quanto salvatore dell’umanità il primo, generatrice del salvatore medesimo dal peccato originale la seconda, commesso per l’ingestione di questo frutto da parte di Adamo ed Eva.
  La parte del mosaico in esame simbolizza anche tutto l’apparato genitale femminile. La torta, contenuta nell’ottagono approssimativamente regolare di destra, come visto, simbolizza sia la vulva, imene compreso, sia, di conseguenza, la verginità, mentre l’ottagono approssimativamente regolare più interno, contenente Gesù, simbolizza l’utero con l’ovulo fecondato, cioè l’embrione e, quindi, il concepimento di Gesù medesimo. Tra la vulva (con le grandi e piccole labbra, il vestibolo e l’imene) e l’utero si trova la losanga (quadrato di destra), simbolizzante il vestibolo, l’imene e la vagina, che funge da passaggio tra gli stessi dello sperma simbolizzato dalle due coppie di pesci simbolizzanti ΧΡEΙΣΤÒΣ, rappresentati nei due trapezi adiacenti. L’altra losanga (quadrato di sinistra) simbolizza in questo caso il passaggio tra utero e ovaia, cioè le tube di Falloppio. Il pesce a sinistra simbolizzante ΗΣΟŶΣ, qui simbolizza il suo ovulo, così anche le pere nelle due coppe. Siccome, come si vedrà meglio in seguito, l’immagine, contenuta nell’ottagono di destra è soprattutto una labirintica triplice cinta circolare, mentre ciascuna losanga (quadrato), è, come visto, soprattutto una labirintica triplice cinta quadrata, simboli questi di passaggio attraverso i quali avviene una vera e propria rigenerazione o, meglio, rinascita, il suddetto concepimento di Gesù e la conseguente sua nascita, qui rappresentati, ci conducono a quella concezione, che secondo il cristianesimo è una vera e propria rinascita o, meglio, riproduzione di Dio per la salvezza e la liberazione dell’uomo e, indirettamente, di tutta l’umanità, sia pure limitata a quella del solo spirito. Ci vorranno più di 1800 anni da questo evento, qui rappresentato simbolicamente, che l’uomo e, quindi, l’umanità si porranno l’ulteriore questione della liberazione dell’uomo da ogni condizionamento, dopo quelli dalla schiavitù e dalla servitù della gleba, inteso immortale non come spirito, bensì come specie, sia pure in una dimensione evolutiva, secondo la quale l’estinzione di una specie può anche avvenire con l’evoluzione in un’altra più adatta al proprio ambiente. I 5 pesci del mosaico in esame possono, inoltre, simbolizzare anche il 5° giorno della creazione biblica, in cui sono stati creati i pesci (Genesi 1:21÷23).
  All’inizio di questa disamina è stato riportato, secondo l’opinione di alcuni studiosi [G. Volpe, C. Annese, D. Leone, A. Rocco: I MOSAICI PAVIMENTALI DEL COMPLESSO PALEOCRISTIANO DI SAN PIETRO A CANOSA (BA), nota 14], che la basilica di Mesaplik risale alla metà del IV secolo. Ora, però, ritengo che, evidenziando il mosaico esaminato una forma di cristianesimo molto mascherato, questa basilica possa risalire ad un periodo, in cui il cristianesimo si barcamenava nella semiclandestinità, anteriore, quindi, all’editto di tolleranza religiosa emanato nel 311 dall’Imperatore Romano d’Oriente Galerio a Nicomedia (sua "capitale", l’attuale Izmit) ed al rescritto (in quanto confermava quello di Galerio), pubblicato sempre a Nicomedia nel 313 dell’Imperatore Romano d’Oriente Licinio, che aveva sposato Costanza, sorella dell’Imperatore Romano Costantino I, figlio dell’Imperatore Romano Costanzo Cloro (Marcus Flavius Valerius Constantius), Illirico. L’Illiricum romano comprendeva il centro-nord dell’Albania, Apollonia compresa (Aristotele considerò Apollonia un esempio peculiare di oligarchia, per il controllo della città e della numerosa popolazione prevalentemente di origine Illirica da parte dei discendenti dei coloni greci). Questa basilica perciò può risalire all’epoca di quest’ultimo Imperatore, prima Cesare e dal 1° maggio del 305 Augusto d’Occidente, fine III - inizio IV sec., e delle sue due mogli, Elena e Teodora, la prima, madre di Costantino I (Illirico), poi santificata. Tutt’al più la si può far risalire al decennio successivo all’ultima grande persecuzione dei cristiani, iniziata nel 303 e condotta con ferocia, soprattutto nell’Oriente, dove la religione cristiana era ormai notevolmente diffusa, da Diocleziano (Gaio Aurelio Valerio Diocleziano, nato Diocle in quanto Illirico), Imperatore Romano dal 20 novembre del 284, Augusto d’Oriente e membro della tetrarchia dallo stesso istituita dal 292, il quale perciò nominò il suddetto Galerio col titolo di Cesare (coadiuvante e successore) e depose di sua iniziativa la carica e il titolo di Augusto il 1° maggio del 305.
  Dato che "melius abundare quam deficere est", si riporta la seguente espressione ottenuta leggendo di seguito la prima colonna e l’ultima riga dello scritto del mosaico, proseguendo poi la lettura per colonne, così da rileggere la lettera "Ϛ": "ѦΠϚ ῾Ѧ ϘEϚ", in caratteri latini: "HAP[5]c KAQ HA KEQ", in italiano: "Apri tanto (abbastanza), prurisce troppo!", ragionevolmente parlando, vu(lva) oppure, dato che si presume verosimilmente essere pronunziata da Cristo, sempre dall’albanese spezzanese la precedente si traduce: "Svela tanto, ottieni troppo (molto)!", con "tanto" riferito al contenuto simbolico del mosaico. Se invece si leggono le prime due righe, seguite da ciò che rimane della prima colona, terminando con la rimanente terza colonna, che comporta la rilettura della lettera "Ϙ", si ottiene: "῾Ѧ ΠѦϘϘEϚ", che dall’albanese spezzanese letteralmente si traduce: "Mangi(a) poco, ha troppo (molto)", cioè: "Ha troppo (molto), mangi(a) poco", nel senso che, se vale "mangia", il riferimento va alla vulva, se, invece, vale "mangi", la pronuncia della frase deve essere attribuita a Cristo Liberatore.
L’Aleph fenicia

  Si riporta il seguente passo, importato da Aleph, in Wikipedia, l’enciclopedia libera, con cui con dovizia di particolari si descrive come la lettera alfabetica ebraica 'aleph' ed la sua omonima fenicia, il cui significato è "bue", in quanto in origine con le sue due gambette che fungevano da corna assomigliava ad una testa di bue coricata sul fianco, simbolizzava in ambito religioso Dio.
  «א Aleph è il nome della prima lettera dell’alfabeto fenicio e della prima lettera dell’alfabeto ebraico. Essa ha come corrispondente greco l’alfa, l’arabo alif e da questa lettera origina anche la A. In origine la sua forma assomigliava a una testa di bue stilizzata (aleph significava infatti "bue"). In seguito ad una rotazione della lettera, connessa col variare del senso della scrittura, le due "corna" del bue sono diventate le due "gambe" della A stampatello.
  Nella scrittura ebraica le lettere venivano anche impiegate come cifre, e ad 'aleph' spettava il valore numerico di 1. Dal momento che le lettere avevano anche un forte significato simbolico, l’Aleph, in quanto simbolo dell’unità, veniva connesso con Dio, l’Uno, Unico e Eterno.
  Ulteriori interpretazioni simboliche si basano su di un’analisi della forma della lettera. Graficamente l’aleph (nella sua grafia odierna, diversa da quella antica) si può immaginare formato da due Yod connessi da un Vav. Nel sistema numerico ebraico ogni Yod vale 10 e ogni Vav vale 6. Dalla somma totale si ottiene il numero 26, che è pari alla somma dei valori numerici delle lettere che compongono il nome divino, YHWH; infatti la Yod come precedentemente detto vale 10 più due He del valore di 5 e il Vav con valore di 6 (10+5+6+5 = 26).
  Aleph rappresenta anche l’inizio (dell’alfabeto e della numerazione), e pertanto viene connesso con ADAM (uomo), la più nobile creazione di Dio, il cui nome inizia proprio con aleph».
  Riprendendo le due espressioni dello scritto del mosaico "῾Ѧ ΠѦϘ KE ’ѦϚ" e "῾ѦΠ[5]d KѦ ῾Ѧ ϘEϚ", la prima, ottenuta leggendo le righe, si traduce: "Mangi poco, hai tanto (questo)!", cioè: "Hai tanto (questo), mangi poco!", riferito agli alimenti rappresentati nel mosaico. La seconda, ottenuta leggendo tra le righe (le colonne), si traduce: "Apri (Spalanca) bue, mangi troppo (molto)!", ma "bue" è "aleph", e, quindi, Dio, perciò la traduzione diventa: "Apri (Spalanca) la porta a Dio, mangi troppo (molto)!", se si tien conto che: "῾ѦΠ ΠOYΛAT", in caratteri latini "HAP PULAT", che letteralmente si traduce "Apri le galline", dall’albanese spezzanese si traduce: "Apri la porta (del pollaio) alle galline". Entrambe le frasi, essendo le relative lettere disposte a forma di "bue" e, quindi, di "aleph" che simbolizza Dio ed essendo riportate nel ritaglio d’immagine del mosaico rappresentante Cristo Pescatore e Liberatore, devono essere attribuite al medesimo, che così rispose al diavolo che lo tentava: "Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Matteo 4:4, Liber Liber) e "Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo" (Luca 4:4, Liber Liber). "Noi dobbiamo essere affamati di Dio!" esclama Sant’Agostino ["Famelici Dei esse debemus!" (S. Agostino, Enarrationes in Psalmos 146:17, 1895ss., PL 37)]. Benedetto XVI, nell’Omelia di inizio Pontificato del 24 aprile 2005, tra l’altro afferma: "In questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978, quando Papa Giovanni Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla Piazza di San Pietro. Ancora, e continuamente, mi risuonano nelle orecchie le sue parole di allora: 'Non abbiate paura, aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!' … Così, oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall’esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a Lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la vera vita".
  Segue un breve estratto, lievemente ritoccato per adattarlo al presente lavoro, senza modificarne il significato, di "I 7 Veli di Iside la Nera" di Selene Ballerini (Akkuaria, 2004):
  «La leggenda - riportata anche dallo studioso e sacerdote greco Plutarco (47 ÷ 127 d.C.) in "Iside e Osiride" (3° Edizione Adelphi, 1990, Milano) - narra che Osiride (visualizzato zoomorficamente come un toro) fu prima ucciso ed in seguito smembrato in 14 pezzi dal fratello Seth (anche se, secondo la tradizione egizia, Osiride era morto per annegamento, senza, perciò, esservi alcuna implicazione di Seth), che li gettò nei 7 bracci del Nilo. Iside, alter ego in terra egizia dell’assiro-babilonese Istar, andò alla ricerca dei pezzi per ricomporre il corpo dell’amato fratello, ma ne trovò solo 13, perché il fallo era stato ingoiato dai pesci [nella primitiva versione dei "Testi delle Piramidi", incisi sulle pareti della piramide di Unas (VI Dinastia, 2420 ÷ 2270 a.C.) è la madre Nut a rimettere insieme il corpo di Osiride, che poi Iside e la sorella Neftys ritrovano nel fiume]…
  L’episodio dello smembramento collega Osiride a Dioniso, il Dio greco che secondo il mito fu appunto fatto a pezzi dai Titani, gli oscuri Figli di Madre Terra, e il cui animale sacro era parimenti il Toro, le cui corna» a falce «segnalano la natura lunare di ambedue i personaggi.
  […] Firmico Materno e Clemente d’Alessandria sono i primi a riferire il mito della morte del Dio degli Inferi Dioniso, alter ego, insieme ad Ade, di Osiride in terra greca. Secondo il loro racconto i Titani avrebbero fatto a pezzi il Dio ancora bambino, per poi cuocerne le membra e mangiarle. Ma Atena riuscì a sottrarre il cuore e denunciò il crimine al padre Zeus, che fece morire i colpevoli.
  Della sua rinascita né FirmicoClemente parlano e non ne parlerà nemmeno il cristiano Arnobio, per non accomunare un Dio pagano al Cristo nel miracolo della vittoria sulla Morte. Ma quando fra il IV e il V secolo d.C. rifiorirono le correnti orfiche il mito di Dionisio si consolidò proprio sulla resurrezione, il fulcro più attivo nelle aspirazioni soteriologiche dei Misteri orfici.
  Evidenti le corrispondenze con gli antichi culti orientali che nel periodo ellenistico affluirono nell’impero di Roma. Tali culti, le cui radici erano probabilmente mesopotamiche, avevano come tema comune proprio il rito di morte e resurrezione di un Dio
  Forse il più diffuso in tarda epoca ellenistica è il culto di Cibele ed Attis, importato a Roma nel 204 a.C. Attis, Dio della vegetazione, moriva e risorgeva e all’equinozio di primavera la sua vicenda veniva commemorata con una festa scandita in vari momenti: lutto, processione funebre, sepoltura e resurrezione.
  Dalla Siria proveniva il culto di Adone, adorato, come Dioniso, soprattutto dalle donne. La sua amante era Astarte - Dea della bellezza e dell’amore - e come Attis anche Adone muore, risorge, viene pianto e infine festeggiato in riti primaverili.
  La vicenda di Cristo è analoga ai mitologemi degli Dei asiatici. Infatti Gesù, come Dioniso, nasce da una mortale e dona alla madre l’immortalità.
  Compaiono inoltre in ambedue i miti il vino, la grotta con un asino, la culla, la persecuzione. E sia Cristo sia Dioniso misterico assumono la figura di Salvatore e soffrono una passione in quattro momenti, pur se disposti in differente ordine cronologico: uccisione, spezzettamento delle membra, cannibalismo e resurrezione.
  [...] Inoltre Iside, così come Osiride, aveva la pelle nera e, perciò, era chiamata "la Nera" proprio come la greca Dea del grano Demetra (nel mondo antico era il colore della fertilità) e tale caratteristica sarà forse il principale veicolo del proliferare di Madonne Nere in Europa, tutte - non a caso - dotate di virtù curative. … Un ulteriore filone di persistenza dell’immaginario religioso di Iside nella cultura europea è quello - a cui si è già fatto cenno - del sovrapporsi di elementi cultuali mariani su precedenti peculiarità isidiane. E non solo per quanto riguarda la tradizione delle Madonne Nere, bensì soprattutto per l’immagine egizia di Iside che seduta in trono allatta il Figlio Horus, sorta di prefigurazione iconografica della Vergine con Gesù» bambino (il Bambinello).
  Dalla su esposta narrazione, oltre ad emergere come in epoche diverse si susseguono credenze simili, colpisce in modo particolare la morte per smembramento e successiva resurrezione dei tre soggetti presi in esame, cioè Osiride/Toro, Dioniso/Toro e Cristo/Alfa/Aleph<=>Bue (da quanto emerso dall’esame del mosaico in esame). Per quanto riguarda lo smembramento del corpo di Cristo, esso è avvenuto solo simbolicamente durante l’ultima cena per mezzo dello spezzettamento del pane e del versamento del vino nei calici (coppe) e, poi, offerti da Cristo ai suoi apostoli poco prima di essere arrestato, pronunziando le frasi: "Prendete e mangiate; questo è (significa, rappresenta) il mio corpo" e "Bevetene tutti, perché questo è (significa, rappresenta) il mio sangue" (Matteo 26:26÷28, CEI; Nardoni). Da ciò la frase "῾ѦΠ[5]e KѦ ῾Ѧ ϘEϚ", letteralmente tradotta in questo caso "Smembra Bue, mangi troppo!", non può che assumere la forma: "Smembra (il corpo di) Cristo, mangi troppo!", sempre simbolicamente parlando, o, meglio, "Diffondi (Divulga, Spiega, Svela l’insegnamento di) Cristo, mangi troppo!" Questi apostoli in numero di 12, come è riportato nei seguenti versetti: "13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli: 14Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso, Giacomo d’Alfeo, Simone soprannominato Zelota, 16Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota, che fu il traditore" (Luca 6:13÷16, Liber Liber), "13Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. 14Ne costituì Dodici che stessero con lui 15e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni. 16Costituì dunque i Dodici: Simone, al quale impose il nome di Pietro; 17poi Giacomo di Zebedèo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanèrghes, cioè figli del tuono; 18e Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananèo 19e Giuda Iscariota, quello che poi lo tradì" (Marco 3:13÷19, Liber Liber) e "1Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità. 2I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea, suo fratello; Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, 3Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo il pubblicano, Giacomo di Alfeo e Taddeo, 4Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, che poi lo tradì" (Matteo 10:1÷4, Liber Liber), erano, guarda caso, pari, come visto, alla composizione dei collegi sacerdotali romani dei Flamines minores, dei Salii Palatini e dei Salii Quirinales.
  Si è visto come in ambito religioso aleph è un simbolo di Dio. Essendo alfa (Ѧ) il corrispondente di aleph, anche questa lettera greca simbolizza la stessa divinità. Ciò ci permette di affermare che le tre lettere "Ѧ" dello scritto del mosaico simbolizzano la Santissima Trinità. In particolare quella del primo rigo essendo di dimensioni più grandi simbolizza il Padre, quella del secondo rigo, come già visto, simbolizza il Figlio, mentre quella più in basso nel quarto rigo lo Spirito Santo sceso in terra.
  In precedenza è stato constatato che la disposizione delle lettere alfabetiche del mosaico è stata approssimativamente realizzata a forma di "H" (eta) con parte superiore del segmento verticale a destra mozzato. Questa imperfezione consente alla stessa disposizione di poter essere interpretata come la lettera alfabetica A (alfa), di cui la parte triangolare superiore è formata dai primi due righi, mentre le gambette non divaricate, ma verticali, sono formate dalle rimanenti lettere alfabetiche. Quindi, anche la disposizione delle lettere dello scritto del mosaico in esame, oltre, come visto, a rappresentare la resurrezione del figlio di Dio per la particolare assomiglianza al numero H = 8, rappresenta nello stesso tempo Dio medesimo per la particolare somiglianza al numero A = 1, che, come visto, è un’icona di Dio.
  Se si suppone la lettera Π essere l’iniziale della parola "ΠѦPI, I", in caratteri latini "PARI, I", che dall’albanese della mia Spezzano letteralmente si traduce "PRIMO", tutte le lettere dello scritto del mosaico in esame, alcune prese singolarmente, altre in coppia, ci forniscono la cifra unitaria. Difatti   per   la   precedente   supposizione Π(ѦPI, I) = 1°. Inoltre Ѧ = 1; ϘѦ, in caratteri latini "KA", si traduce "BUE", che è la traduzione, come visto, di aleph, che in greco è Ѧ = 1; ϚE, in caratteri latini "QE", dall’albanese della mia Spezzano letteralmente si traduce "BUOI", ognuno dei quali è la traduzione di aleph, che in greco è Ѧ = 1; si traduce "BUE", che è la traduzione di aleph, che in greco è Ѧ = 1. Così lo scritto in esame ci fornisce 5 volte la cifra unitaria nella veste di alfa o primo, che in entrambi i casi simbolizza, come visto, Cristo. Conseguentemente all’interno dell’ottagono di sinistra dello stesso mosaico Cristo vi compare 6 volte, una volta come immagine e 5 volte come simbolo. Il 6, giorno di nascita di Cristo, in questo mosaico, come visto, ricorreva 7 volte; ora, con l’aggiunta del 6 delle volte in cui Cristo compare nell’ottagono di sinistra, questa ricorrenza diventa 8, stante ad indicare, come visto, il giorno dopo il settimo della creazione, l’inizio di una vita nuova, quando Gesù Cristo governerà l’umanità.
  Ritornando all’immagine umana del mosaico, più d’uno si sarà chiesto perché per rappresentare l’immagine di Cristo si sia scelto un volto che, come visto, è quello, se non di un gigante, quantomeno di una persona fisicamente molto forte. Ciò è dovuto al fatto che il Cristianesimo ereditò dalla tradizione ebraica l’immagine di Sansone, che nel mondo greco-latino subì una specie di sdoppiamento, sovrapponendosi per gli aspetti più "muscolari" a quella di Ercole (che, come Sansone, aveva avuto a che fare sia con i leoni che con donne poco o per niente affidabili) e per quelli più spirituali (la consacrazione a Dio, il sacrificio finale) a quella di Cristo. Per questa ragione Cristo fu simbolizzato nell’iconografia paleocristiana, come quella in esame, con l’immagine di Sansone (ved. Sansone, in Wikipedia, l’enciclopedia libera).
  Questa immagine di Cristo del mosaico, inoltre, è affiancata da entrambe le parti da una grande X, iniziale di XP(E)IΣTÒΣ e croce greca ruotata di 45 gradi, sovrapposta al centro dal rispettivo quadrato, proiezione ortogonale di un cubo, a cui, come visto, è ricondotto l’elemento terra nel Timeo di Platone. Ciò farebbe ritenere che questa X, che appare all’esterno del quadrato, simboleggi Cristo risorto, dato che nell’epoca in osservazione, quando essa era ottenuta con le diagonali del quadrato in esso inscritte, simboleggiava, invece, la vita terrena di Cristo medesimo. Alle stesse conclusioni si può giungere se si considera che la lettera alfabetica I (Iota) in carattere capitale quadrato si ottiene dal lato del quadrato e che il suo valore numerico è pari a 10, mentre I2 può essere considerato simbolicamente un quadrato di lato I, la cui area è pari a 100 = P (Rho), che può essere simbolicamente rappresentato con un quadrato, le cui diagonali formano la lettera alfabetica greca X. Quindi il quadrato con le sue diagonali simbolizza il monogramma (cristogramma) delle prime due lettere iniziali di XP(E)IΣTÒΣ.
  Si riporta di seguito un articolo di Viviano Domenici, pubblicato a pag. 29 (Corriere Scienza) del quotidiano Corriere della Sera del 30 maggio 1999:
  «Parti di strumenti del primo millennio avanti Cristo erano nei musei da decenni: lenti di cristallo di rocca, tubi d’oro e "bolle di consegna" agli astronomi reali. Gli Assiri avevano il telescopio. Quasi 3000 anni fa gli Assiri inventarono il cannocchiale e con questo strumento gli astronomi di corte scrutavano il cielo per fare oroscopi sulla base dei movimenti degli astri. Una notizia, questa, che sa di fantascienza e che invece poggia su materiali reperti archeologici conservati al British Museum di Londra: una lente in cristallo di rocca scoperta a Ninive e alcune "tavolette" astronomiche Neo - Assire (circa 750 avanti Cristo), scritte in caratteri cuneiformi. La lente biconvessa (piano-convessa?) in cristallo di rocca (ved. immagine fotografica a fianco), con una lunghezza focale di 4,5, venne rinvenuta nel 1850, nella capitale assira (odierno Iraq) dall’archeologo inglese A.H. Layard e da allora è conservata al British Museum. Alcuni decenni fa gli archeologi ipotizzarono che potesse essere stata "utilizzata come lente per leggere", ma non andarono oltre. Ora questa lente assume ben altro significato se messa in relazione al contenuto di alcune "tavolette" cuneiformi rinvenute negli archivi reali assiri di Ninive e pubblicate da Fredrick Mario Fales nel 1992, a Helsinki. Questi documenti riportano elenchi di merci preziose transitate attraverso l’amministrazione della corte e citano "lenti" e "tubi d’oro"; questi ultimi fanno pensare a un possibile utilizzo per il corpo stesso dei cannocchiali, anche se in alcune "tavolette" il loro numero appare eccessivo rispetto all’impiego ipotizzato. Per quanto riguarda l’utilizzo delle lenti, invece, non c’è alcun dubbio perché in altri documenti il testo precisa che vennero consegnate agli astronomi di corte e servivano a "ingrandire l’occhio". A portare allo scoperto quello che da tempo era rimasto incredibilmente sepolto in differenti pubblicazioni scientifiche è stato Giovanni Pettinato, docente di assiriologia all’università "La Sapienza" di Roma, che nel suo ultimo libro "La scrittura celeste" (Ed. Mondadori) ha affrontato il problema della nascita dell’astrologia e dell’osservazione astronomica tra i popoli dell’antica Mesopotamia. Nell’indagare sulle connessioni tra astrologia e osservazione astronomica e sull’influenza che queste conoscenze del mondo mesopotamico ebbero sulla cultura greca, Pettinato dedica un breve capitolo a "Lenti e cannocchiale" nel quale riepiloga le diverse informazioni sull’osservazione astronomica presso gli assiro - babilonesi rivelando poi l’esistenza di cannocchiali. In realtà , già dall’esame critico delle conoscenze astronomiche dei popoli mesopotamici durante il primo millennio avanti Cristo si poteva dedurre che le osservazioni riportate dagli antichi astronomi non potevano essere state fatte a occhio nudo. "In Mesopotamia l’osservazione del cielo ebbe inizio in epoca sumera - spiega Pettinato - ma il primo vero compendio di astronomia è babilonese e risale sicuramente ad oltre il 1000 avanti Cristo; in quest’opera sono elencate settantadue stelle - costellazioni, compresi i pianeti, identificate dagli Assiro - Babilonesi. Comunque è attorno all’VIII secolo avanti Cristo che si assiste a una vera e propria esplosione dello studio del cielo, tanto che ci sono pervenuti oltre quattromila testi cuneiformi a carattere astronomico. Tra questi documenti, che riportano i nomi di ben 4000 stelle, vi sono testi per calcolare i movimenti del Sole, della Luna e dei cinque pianeti allora conosciuti (Mercurio, Venere, Marte, Saturno e Giove), in base al sistema sessagesimale proprio di Babilonia e che poi rimase praticamente inalterato fino a Copernico: è il sistema di 360 gradi in un cerchio, 60 minuti in un’ora e 60 secondi al minuto. Lo stesso che usiamo ancora oggi". E ci sono anche testi rivelatori per quanto riguarda la precisione delle osservazioni. In un documento del periodo del re Assurbanipal (668 ÷ 627 a.C.) sono calcolate le distanze tra alcune stelle con valori che scendono nettamente sotto a 1 minuto di arco. Precisione che certamente non poteva essere raggiunta con osservazioni fatte a occhio nudo. Il mistero pareva davvero irrisolvibile. Ora, quella lente ritrovata e le "bolle di consegna" provenienti dagli archivi reali assiri risolvono l’enigma e ci costringono a riscrivere il primo capitolo della storia dell’astronomia.
  Dagli osservatori rapporti al re. La notizia che gli assiro - babilonesi effettuavano con grande metodo osservazioni della volta celeste ci viene dai loro stessi testi cuneiformi. In una delle "Relazioni" al sovrano un astronomo scrive: "Riguardo all’osservazione della Luna, per la quale il mio signore mi ha scritto, l’eclisse sarà evitata; essa non si verificherà". * "Riguardo all’osservazione del Sole per la quale il mio signore mi ha scritto, non sa il re mio signore che esso è stato osservato attentamente? Domani è l’ultimo giorno utile; una volta che la veglia è finita, anche questa eclisse sarà evitata. Essa non avverrà". * "Riguardo ai pianeti Saturno e Marte... vi è ancora una distanza di circa cinque dita, sicché la congiunzione non è ancora certa. Attualmente noi stiamo a osservare e terremo informato il re nostro signore. Marte avanza di circa un pollice al giorno". In uno dei testi astronomici del II secondo a.C., l’astronomo reale segnala di non aver potuto fare il suo lavoro a causa del maltempo: * "Notte del giorno 13 del IX mese. Io non stetti in osservazione; i venti del sud e dell’est soffiavano; per tutta la notte il cielo era molto coperto; un piccolo acquazzone. Il 13 giorno:... a causa delle nuvole io non stetti in osservazione...".
  "Videro che Giove era il più grande e girava intorno al Sole". L’ipotesi dell’esistenza di telescopi in epoca babilonese era stata avanzata già all’inizio degli anni Settanta da A. Kryala, della facoltà di fisica dell’università dell’Arizona, il quale, dopo aver fatto rilevare il ritrovamento di lenti in scavi babilonesi, notava che fin dal XVI secolo avanti Cristo erano state fatte osservazioni sistematiche di Venere. Ma Kryala non si era fermato a questo; anzi, aveva messo in evidenza un fatto che, sebbene fosse sotto gli occhi di tutti, non era mai stato considerato in chiave astronomica. Ecco in sintesi la sua teoria. Il nome del pianeta Giove deriva dal greco Zeus, che a sua volta deriva dal babilonese Marduk, il dio supremo. Se i babilonesi avevano battezzato il più grande pianeta del Sistema solare col nome della loro più grande divinità, dovevano averlo fatto sapendo che Giove - Marduk era il pianeta più grande tra i cinque che conoscevano. E per scoprirlo avevano dovuto utilizzare qualche ausilio ottico perché Giove non è il pianeta più luminoso e a causa della sua enorme distanza da noi, non è neppure quello che appare più grande degli altri. Quindi, se nonostante l’apparenza, i babilonesi avevano capito qual era il pianeta più grande dovevano averlo osservato con un telescopio. Ma non solo. Visto che le dimensioni apparenti dei pianeti sono determinate dalla distanza dalla Terra, i Babilonesi devono essere riusciti a stabilire le effettive distanze di tutti e cinque i pianeti noti e - sulla base dei dati astronomici da loro registrati - si deduce che avevano una teoria ragionevole per calcolare le distanze planetarie. In sostanza - sostenne Kryala - i babilonesi avevano capito che i pianeti si muovono su orbite circolari concentriche attorno al Sole. Una volta messa a punto una teoria eliocentrica, fu naturale per loro supporre che più erano lunghi i periodi di rotazione dei pianeti intorno al Sole, più erano distanti dal Sole stesso. Da qui la possibilità di determinare le diverse dimensioni dei pianeti. Secondo Kryala, sebbene diverse "tavolette" cuneiformi fossero "segreto di Stato", molte informazioni passarono ai Greci».
  Inoltre, nell’articolo: "Nemesis, compagno oscuro", pubblicato nel n° 25 - gennaio 2002 del mensile Hera, è riportato, tra l’altro, che: "L’assirologo italiano Giovanni Pettinato dell’Università La Sapienza di Roma … afferma che quasi 3000 anni fa gli Assiri inventarono il cannocchiale e lo impiegavano per comprendere il movimento degli astri. La sua affermazione è basata su una lente di cristallo ritrovata a Ninive e sulle raffigurazioni di tavolette assire nelle quali alcuni sacerdoti maneggiavano dei cannocchiali puntati verso il cielo".
  Da un inventario di Sir Austen Henry Layard, compilato nel corso degli scavi del Palazzo di Sargon a Ninive, è stato tratto che: "Insieme ai vasetti di cristallo si scoprì una lente di cristallo di rocca con una faccia convessa e l’altra piana. Dovrebbe risalire a VII sec a.C. È perfettamente chiara e trasparente senza alcuna imperfezione. Realizzata con un frammento di quarzo di alta qualità. La forma e le dimensioni della lente corrispondono all’orbita oculare umana ed essa ingrandisce gli oggetti osservati". Gli antichi Assiri quando scoprirono il pianeta Saturno affermarono che fosse circondato da un anello di serpenti; si potrebbe dire: proprio come la torta rappresentata nel mosaico della basilica di Mesaplik. Nel 1834 in una tomba greca di Nola fu scoperta una lente piano-convessa (Lente di NOLA), ora sparita, incastonata in una montatura d’oro. Un cristallo parallelepipedo con almeno una delle sue due basi concava non è altro che una lente divergente, utile come monocolo per un miope. Tra i reperti datati al periodo più antico, provenienti dai siti di "Naqada" dell’oscuro e lontanissimo periodo predinastico (cultura gerzeana dal sito di el-Gerza vicino al Fayyum, ~3600 ÷ ~3100 a.C.), dalle principesche tombe protodinastiche di Abydos, dai sotterranei della piramide di Zoser a Samara, al British Museum c’è anche una lente di cristallo di rocca di 4800 anni fa, rinvenuta a Helwan in Egitto nella tomba del faraone Semempses, di cui si riporta a fianco un’immagine fotografica e che è talmente perfetta che sembra molata meccanicamente. Un’altra lente di cristallo di rocca di 1,5x del III sec. a.C., con le facce perfettamente uniformi, sebbene un po’ sporca, ma di elevata qualità e perfetta per una persona miope, è conservata al museo egizio del Cairo. Nerone, notoriamente miope, si serviva di uno "smeraldo" piano-concavo per assistere ai combattimenti dei gladiatori. Fu molto imitato e "l’occhiale" di Nerone è passato alla storia. Del resto, sono state trovate lenti negli scavi di Ercolano e Pompei. Si sa (Plinio, Naturalis Historia XXXVII, 16:2) che i romani sapevano costruire lenti oftalmiche positive e negative usando materiali naturali. Quelle divergenti piano-concave e biconcave presero il nome di vetri cavi, invece le convergenti piano-convesse e biconvesse quello di lenti dal legume lenticchia, perché ne imitano la forma. Si sa poi che in epoca greco-classica, ellenistica e romana venivano usate, per avere un’immagine ingrandita di oggetti o per concentrare i raggi solari, le bocce sferiche di vetro riempite d’acqua [Plinio, Naturalis Historia XXXVI e XXXVII (77 d.C.); Seneca, Naturales Quaestiones I, III, VI, VII (~60 d.C.); Aristofane, Le nuvole (Νεφέλαι), atto II, sc. I (421÷418 a.C.); ecc.]. In quest’ultima opera, cioè "Le nuvole", traduzione di Ettore Romagnoli, nell’atto II, sc. I, vi compare, oltre alla boccia sferica cava di vetro in cui si suppone di poter rinchiudere virtualmente la luna, anche la lente convergente di cristallo di rocca, come risulta dal seguente passo: «LESINA: "L’ho trovata, una maniera per non pagare i frutti!" SOCRATE: "E dunque, dimmela!" LESINA: "Dimmi un po’!" SOCRATE: "Che?" LESINA: "Se comprassi una maga tessala, e poi di notte mi pigliassi la luna, la chiudessi in un astuccio tondo, come uno specchio, e la guardassi a vista?" SOCRATE: "E a che ti gioverebbe?" LESINA: "A che? Se non spuntasse più la luna, io non pagherei più frutti!" SOCRATE: "E come mai?" LESINA: "Perché si paga a luna nuova, il frutto!" SOCRATE: "Bravo davvero! Ti propongo un altro elegante quesito. Se t’intentano, poni, un processo di cinque talenti, come faresti per mandarlo in fumo?" LESINA: "Come?... Come?... Non so, fammi cercare!" SOCRATE: "Sempre a te stretta non tener l’idea, ma lascia il tuo pensier che in aria vagoli come uno scarabeo legato a un piede!" LESINA: "L’ho, per mandarlo in fumo, una trovata! È fina fina, e tu l’ammetterai!" SOCRATE: "Sentiamo un po’!" LESINA: "Dai cerretani, hai visto mai quella pietra bella e trasparente che ci si accende il fuoco?" SOCRATE: "Vuoi parlare del cristallo?" LESINA: "Sicuro! Se lo prendo, e da lontano, mentre il cancelliere scrive il processo, lo mantengo contro il sole, faccio liquefar la cera sopra le tavolette." SOCRATE: "Per le Grazie, ingegnosa davvero!" LESINA: "Ah, gusto mio! Cinque talenti d’un processo in fumo!"» Partendo dal vetro fuso, non è difficile arrivare al vetro "soffiato": basta soffiare in un tubo metallico immerso nel vetro fuso e si ricavano delle bocce cave, dei palloni in vetro. Riempiendo questi palloni con acqua si ottiene una rudimentale lente. Con la stessa tecnica usata per le lenti divergenti ricavate da cristalli è possibile ottenere da una piastrina metallica un piccolo specchio concavo e questo, ponendovi vicino un oggetto, può restituire un’immagine (virtuale) ingrandita. Certi lavori naturalistici sono stati eseguiti, in mancanza di lenti d’ingrandimento, proprio con specchi concavi. Strabone (~58 a.C. ÷ 21/25 d.C.) aveva compreso il fenomeno della rifrazione della luce, come risulta dal seguente passo: "L’impressione visiva di grandezza (del sole) aumenta ugualmente al tramonto e al sorgere sui mari per il fatto che vengono portati in alto maggiori vapori dalla superficie d’acqua. I raggi visivi, passando attraverso questi, come attraverso dei vetri, vengono spezzati (rifratti) e l’occhio riceve le immagini più larghe, come anche guardando il tramontare o il sorgere del sole o della luna attraverso una nuvola secca e sottile, quando l’astro appare anche rosso". Claudio Tolomeo (~100 ÷ ~175 d.C.) misurò l’angolo di rifrazione nel passaggio acqua-aria, aria-vetro e acqua-vetro. Egli notò che nel passare da un mezzo trasparente all’altro, il raggio luminoso deviava in dipendenza dalla densità dei mezzi a contatto. L’angolo di rifrazione era minore dell’angolo d’incidenza nel passaggio da un mezzo rarefatto ad uno denso; nel passare da un mezzo denso a uno rarefatto l’angolo di rifrazione era maggiore dell’angolo di incidenza. Con un cerchio graduato munito al centro di due indici per facilitare la misurazione degli angoli di incidenza i e di rifrazione r, Tolomeo ricavò una serie di misure nei mezzi aria-acqua, aria-vetro, acqua-vetro. Nel caso del passaggio della luce da un mezzo più denso a uno meno denso stabilì il valore dell’angolo limite per l’acqua. Per gli angoli di incidenza e di rifrazione individuò una relazione che associava ad un dato valore di i, il rapporto i/r. Questa assunzione verrà da molti intesa come una legge del tipo i/r = costante, che, per piccoli valori di i, risultò in ottimo accordo con la successiva legge della rifrazione di Snell-Cartesio del XVII secolo. Erone di Alessandria nel I secolo a.C. formulò le leggi della riflessione ipotizzando che la luce segua il minimo percorso. In ogni caso è noto dai resoconti archeologici che lenti ricavate da cristalli di rocca erano utilizzate anche prima, già, come visto, dal 2800 a.C.
  Una semplice lente, un tubo e un piattino sul fondo dava circa 10 ingrandimenti e la gente che osservava i campioni attraverso questo rudimentale strumento ne restava affascinata. Con l’obiettivo 10x si può incominciare a vedere la forma a semino e il movimento sinuoso in avanti dello spermatozoo, mentre con 20x si possono riconoscere la testa ed il tratto mediano. Con un obiettivo a 40 ingrandimenti i particolari di tutte le parti dello spermatozoo sono molto chiari. Le dimensioni degli spermatozoi umani normali sono le seguenti: la lunghezza della testa a forma ovale varia dai 3 ai 5 μm, la sua larghezza, compresa tra ½ e della lunghezza, dai 2 ai 3 μm, mentre il suo profilo è regolare. Il tratto mediano è sottile, meno di della larghezza della testa, diritto e di profilo regolare; è allineato con l’asse longitudinale della testa ed è lungo approssimativamente 7÷8 μm. La coda è sottile, distesa e profilo regolare con una lunghezza di almeno 45 μm. Le dimensioni degli spermatozoi con grossa testa ovale o tonda possono raggiungere anche il doppio di quelle normali e per una buona visualizzazione dei quali sono sufficienti anche 20 ingrandimenti.
  Da quanto precede si può ammettere che all’epoca della realizzazione del mosaico della basilica di Mesaplik si era in grado di poter visualizzare gli spermatozoi. Ciò ci induce a ritenere che la lettera alfabetica "Ϙ", così come realizzata in questo mosaico, con la "testa" ed il gambo proporzionali alla testa ed al tratto mediano dello spermatozoo, oltre, come detto, a simbolizzare il sesto pesce del medesimo mosaico, simbolizza anche lo spermatozoo, dato che ne è una copia esatta della testa e del tratto mediano, sia pure abbastanza ingrandita.
  Finora si è ritenuto che l’immagine rappresentata nell’ottagono di destra della parte più nota del mosaico della navata settentrionale della basilica di Mesaplik sia una torta e, in modo estensivo, si è anche ritenuto possa simbolizzare l’apparato genitale femminile. Si è anche ritenuto, dato che il cerchio di questa immagine non è solo la proiezione di un cilindro, ma può anche essere quella di una sfera immersa nello spazio a tre dimensioni, essere la rappresentazione del pianeta Saturno per la presenza dell’anello serpentino (toroidale), notato dagli antichi Assiri quando scoprirono questo pianeta. Però la presenza di Cristo, rappresentato, come visto, nell’ottagono di sinistra, ci induce a ritenere che il cerchio interno marrone rappresenta la terra sferica, mentre la corona circolare che la circonda di colore grigio scuro rappresenta le acque sotto il firmamento (cielo) luminoso, che è rappresentato dalla corona circolare di color ecrù circoscritta alla precedente ed oltre il quale si trovano le acque al di sopra di esso, rappresentate con la corona circolare più esterna di colore grigio scuro, il tutto creato nei primi due giorni (Genesi 1:1÷8). L’anello toroidale di 8 spire, che lo circonda, rappresenta simbolicamente 8 cicli solari dall’alba all’alba seguente (geocentrismo), ciascuna parte emergente dei quali percorsa in senso levogiro dall’alba al tramonto, per complessivi 8 giorni, di cui i primi 6 si riferiscono alla creazione divina del mondo, il settimo, il sabato/shabbat (smettere), al giorno del riposo, mentre l’ottavo, la domenica/dies dominicus (Giorno del Signore), al giorno della resurrezione di Cristo, risorto all’alba, ed, in modo estensivo, all’ultimo giorno, quello del giudizio universale biblico. Siccome, però, il sole è simbolo del giorno e la luna quello della notte (Genesi 1:14÷16), questa immagine, che di per se da l’idea del sole fiammeggiante con la sua corona toroidale, rappresenta con le sue 8 spire, indicanti, come visto, 8 cicli solari giornalieri, proprio l’ottavo giorno, simbolo della resurrezione di Cristo e di quella dell’uomo e, perciò, simbolo dell’eternità.
  C’è, però, da aggiungere all’interpretazione del capoverso precedente una simile con la quale si può ritenere che questa immagine rappresentata nell’ottagono di destra sia una triplice cinta circolare, di cui la più interna è la corona circolare di colore grigio scuro adiacente al cerchio centrale marrone, l’intermedia è la corona circolare di colore grigio scuro concentrica, che li contiene, mentre la terza cinta esterna è rappresentata dall’anello toroidale di 8 spire concentrico ai precedenti. Questa immagine labirintica (triplice cinta) a forma circolare, collegata anche al mito di Atlantide descrittoci da Platone nel Crizia, oltre che nel Timeo, che era circondata da tre cinte circolari di canali concentrici, secondo René Guénon, a differenza di quella quadrata, collegata alla Gerusalemme Celeste, è collegata al (simboleggia il) Paradiso Terrestre (René Guénon, "La Triple-Enceinte druidique", in «Le Voile d’Isis», Giugno 1929). L’anello toroidale di 8 spire, simboleggiando sia la terza cinta, cioè l’ultima, sia l’8, cioè l’ottavo e, quindi, l’ultimo giorno della creazione, il giorno senza tramonto, quello del giudizio universale, simboleggia anche la luce e, quindi la sua sorgente, cioè il Sole, che con queste spire sembra inondare la luce in tutto l’universo all’epoca conosciuto e che secondo Dionigi Aereopagita, sotto le vesti di Sol Justitiae, è un altro nome (simbolo) del Messia, cioè di Cristo. Se, inoltre, a ogni cinta circolare si associa un ciclo giornaliero, questa triplice cinta simboleggia anche il terzo giorno, cioè la Domenica o, meglio, il Dies Solis, della resurrezione di Gesù Cristo.
  Per non tralasciare nulla sul termine o ϘѦ, anche nella civiltà egizia, guarda caso, questo termine aveva un significato soprannaturale. "Gli egizi distinguevano accanto al Ka, spirito divino dell’uomo o doppio, altre entità, come Ab(intelletto o volontà), Haiti(vitalità), Pet(corpo astrale), Sahu(doppio auterico) e Xa(corpo fisico). Mentre l’anima Ba(principio vitale risiedente in Ka) passa nell’altro mondo, dove sarà sottoposta al giudizio di Osiride, il Ka", (senza Ba), "rimane con la mummia, continuando a vivere con un debole riflesso vitale assieme agli arredi funebri del defunto o nutrendosi coi cibi offerti dai viventi ovvero con le riproduzioni artificiali di alimenti." (Da G. Francione, BIBBIA INFERNALE - (Saggio sistematico sull’inferno in tutte le tradizioni e culture) - Edizioni Athena 2001 - Roma - 1° volume: ottobre 1990; 2°, settembre 1991; 3°, aprile 1992). Quindi con il termine si indicava in questa civiltà appunto tale idea del doppio. Il era simbolizzato nei geroglifici (egizi) con due braccia che stavano ad indicare sia l’abbraccio che la protezione.
  Un altro doppio lo si riscontra nel termine "infinito", avente come simbolo "", cioè proprio un 8, simbolo dell’eternità (infinito temporale), sia pure rovesciato per non confonderlo con la quantità finita, in quanto, secondo Albert Einstein: "Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma", prosegue il famoso scienziato, "riguardo l’universo ho ancora dei dubbi".
  Prima di concludere si affronterà l’aspetto più delicato di questa trattazione. L’archeologo Damian Komata, che, come detto, ha effettuato gli scavi della basilica in esame, sostiene nel suo più volte menzionato articolo BAZILIKA PALEOKRISTIANE E MESAPLIKUT che le grandi lettere greche poste in 4 righe davanti alla faccia del volto umano del mosaico si leggono "AΠAPKEAC", parola questa che sembra essere legata alla parola "ἀπαρϰτίαϛ", che significa «vento del nord». Questo passaggio tra le due parole ritengo venga giustificato tacitamente da quanto segue. Si riporta a tal fine la nota: "__ aparctias, Θ. apartias, R2d. aparteas, R1. aparceas, Pa (Robert.) __ et boreas dicti, RPΘad (Robert.) dicti et boreas, β.", posta a commento del seguente periodo: "A septentrionibus septentrio interque eum et exortum solstitialem aquilo, aparctias et boreas dicti", tratto dalla Naturalis Historia di C. Plinii Secundi, Vol. I, Lib. II, 119-120 (Cap. XLVII, Sect. 46), RECENSUIT ET COMMENTARIIS CRITICIS INDICIBUSQUE INSTRUXIT IULIUS SILLIG, HAMBURGI ET GOTHAE, SUMTIBUS FRIDERICI ET ANDREAE PERTHES, MDCCCLI, ed in cui: Θ = Chiffletianus (nome del codice), "antiquissimus et sanissimus", P = Monacensis o Pollingensis (nome del codice) (sec. XV), P = Monacensis [sigla (del codice)] (sec. XV), R = Riccardianus (nome del codice) (sec. IX), R2 = Riccardianus (nome del codice) (sec. IX) con maggior numero di note rispetto al codice R1 (sec. IX), che è della stessa serie del primo ma ad esso antecedente, a = Parisiensis Regius 6795 (nome del codice) (sec. VIII o IX), d = Parisiensis Regius 6797 (nome del codice) (sec. XIII), β = vulgata lezione (raccolta) o edizione (scrittura) Dalecampiana, Robert. = Roberti Canuti Crikeladensis defloratione Pliniana (sec. XII), florilegio di tutta la Naturalis Historia di Plinio contratta in 9 libri dedicato ad Enrico II re d’Inghilterra. Una nota simile alla precedente, riguardante lo stesso argomento, ma di più recente fattura, è la seguente: "21 aparctias v. -rtias dR2. -rteas R1. -rcias F2a. -rceas Eop", posta a commento dello stesso periodo, che si riporta di seguito per una virgola in più: "a septentrionibus septentrio, interque eum et exortum solstitialem aquilo, aparctias et boreas dicti", tratto dalla Naturalis Historia di C. Plinii Secundi, Vol. I, Lib. II, 119-120 [(Cap. 47, Sect. (46)], POST LVDOVICI IANI OBITVM RECOGNOVIT ET SCRIPTVRAE DISCREPANTIA ADIECTA EDIDIT CAROLVS MAYHOFF, MCMVI, LIPSIAE, IN AEDIBVS (TIPIS) B. G. TEVBNERI, ed in cui: v = "antichi autori" (sic!) o lezione (raccolta) vulgata poi da antichissime edizioni (scritture) fino a quest’ultima od oltre della Naturalis Historia, o = excerpta completa della Naturalis Historia che Robertus Crickladensis nel sec. XII compose per Enrico II, F2 = primi 6 Libri del codice Leidensis Lipsii n. VII, corretti con assidua cura da una seconda mano del sec. XII da un codice più antico della stessa serie, R2 = codice Florentinus Riccardianus del sec. XI circa, con maggior numero di note rispetto al codice R1 (sec. XI circa), che è della stessa serie del primo ma ad esso antecedente, E = codice Parisinus Latinus 6795 (Silligio et Iano a, Harduino Regius I) del sec. XI, a = codice Vindobonensis CCXXXIV (Silligio et Iano ω), da tempo del monastero S. Biagio nella Selva Nera, del sec. XII o XIII, d = codice Parisinus Latinus 6797 (Harduino Regius II) del sec. XIII, p = codici Pollingano Latino 11301 Monacensi (Silligio P) scritto in Italia nel 1459. Se si tien conto da quanto precede che il codice Riccardianus o Florentinus Riccardianus, che nell’anno 1851 risultava datato al sec. IX, e che il codice Parisiensis Regius 6795 o Parisinus Latinus 6795, che nello stesso anno risultava datato al sec. VIII o IX, nell’anno 1906 sono stati entrambi posdatati al sec. XI, tutti i suddetti codici, che riportano la trascrizione manoscritta della Naturalis Historia in argomento, e la suddetta excerpta, manoscritto riguardante la medesima opera, risultano datati tra il sec. XI ed il sec. XV, tranne il codice Chiffletianus o lezione (raccolta) vulgata v, "antiquissimus et sanissimus", in cui compare, come visto, la parola greca "aparctias", cioè "vento del nord" o tramontana. Siccome nell’opera originale in argomento di Plinio il Vecchio, per ovvie ragioni non esistente più, delle 5 versioni di questa parola greca sicuramente non poteva esserci se non quella esatta, riportata, come detto, nella raccolta vulgata v di antichissimi autori, oltre che nei dizionari greco-antichi, cioè "aparctias", in caratteri alfabetici greci "ἀπαρϰτίαϛ", bisogna concludere che le restanti versioni della stessa parola, di cui p.e. ἀπαρτία, ας ha addirittura il significato di bagagli, mobili, ciò che si porta partendo, bottino, spoglie, bassa famiglia ed, inoltre, (pubblica) auzione, non sono altro che errori di copiatura o, meglio, parole corrotte di quella esatta, effettuate dagli amanuensi dei/nei suddetti codici nel basso o tardo medioevo. Ciò non può essere esteso ad un mosaico originale come quello in osservazione, la cui parte scritta, tra l’altro effettuata almeno 7 secoli prima della compilazione dei suddetti codici manoscritti ed esaminata ampiamente nel presente lavoro, per nessun motivo si può ritenere essere una parola corrotta di 8 lettere di una corretta di 9, conseguenza di errore grammaticale nella lingua greca antica, dato che, come visto, ha più di un significato ben preciso nella lingua della popolazione che abitava e tuttora abita il territorio in cui fu ubicata la basilica in cui è stato realizzato questo mosaico, il principale dei quali nell’ambito della religione cristiana, e nello stesso ambito, sia il suo numero di lettere alfabetiche, sia il suo numero di parole, se alle 4 delle 4 righe si aggiungono, come visto, le altre 4 delle 3 colonne, simbolizzano la resurrezione di Cristo, avvenuta di domenica all’alba, cioè nell’ottavo giorno, essendo il sabato il settimo della creazione, e quella dell’uomo nell’ultimo giorno del giudizio, ritenuto estensivamente anche l’ottavo, in quanto la resurrezione di Cristo è finalizzata alla salvezza (resurrezione) dell’uomo, per avere i capostipiti del genere umano, Adamo ed Eva, ingerito il frutto proibito.
  Fin ora si è mostrato il significato di questo mosaico sul presupposto che la terza lettera alfabetica del secondo rigo dello scritto in esso contenuto sia la lettera dell’alfabeto greco-arcaico "Ϙ". Nuove ricerche hanno consentito di poter considerare anche l’ipotesi, non da pochi sostenuta, secondo cui la terza lettera del secondo rigo in argomento sia la lettera dell’alfabeto greco "P", sia pure storpiata. Perciò "῾Ѧ ΠѦP KE ’ѦϚ" letteralmente si traduce: "Mangi prima (avanti), hai tanto!", dato che la parola "ΠѦP", scritta in caratteri latini "PAR", nella lingua arbëresh significa "prima" e in quella albanese-epirotica, che in epoca romana era parlata anche nel territorio in cui è stato rinvenuto questo mosaico, significa "avanti", come si può constatare nelle due immagini riportate a fianco, che riproducono, rispettivamente, la pag. 345 del FJALOR di Emanuele Giordano, Edito da "il Coscile" in Castrovillari (CS) nell’anno 2000, e la pag. 52 del Vocabolario Italiano - Epirotico di padre Francesco Rossi, stampato in Roma nell’anno 1866 dalla S.C. de Propaganda Fide. Se si effettua la lettura in verticale, considerando, cioè, le colonne dello scritto invece delle righe, si ha: "῾ѦΠ KѦ ῾Ѧ PEϚ", che letteralmente si traduce: "Apri bue, mangi nervo!", dato che la parola "PEϚ", in caratteri latini "REQ"[1]b, in arbëresh significa "nervo", come si può constatare nell’immagine riportata a fianco, che riproduce la pag. 408 del detto FJALOR. Siccome alle pagg. 475, 482 e 927 del suddetto Vocabolario Italiano - Epirotico le parole "nervo", "nerbo" (di bue), "muscolo" e "vena" (del sangue) hanno lo stesso significato, in quanto corrispondono alla medesima parola albanese "dēel" o "deel", siccome la parola "nervus, -i" latina si traduce sia "nervo", che "muscolo", e siccome in italiano la parola "nervo" in determinate frasi ha il significato di "muscolo", non è irragionevole sostenere che nella fattispecie la parola "nervo" assuma il significato di "muscolo", facendo assumere alla precedente frase il significato di: "Apri bue, mangi muscolo!", con ovvio riferimento alla carne, se non balena il sospetto che, siccome carne in albanese si dice "mish", possa alludere al muscolo riproduttivo, venendosi a determinare una situazione simile a quanto esaminato nel Mitreo di Pisa con lo scorpione che afferra con le chele i genitali del toro per alimentarsi. Da quanto esaminato si nota che la lettura per righe dello scritto di questo mosaico non cambia di significato, sia se si prende in considerazione la parola "poco", sia se si prende in considerazione la parola "prima", in conseguenza della diversa interpretazione della terza lettera del secondo rigo di questo scritto, dato che "mangiare poco" o "mangiare prima" non hanno un significato diverso, se si considera che chi "mangia poco" finisce di mangiare prima e, quindi, "mangia prima". Stessa cosa si può dire per la frase che si ottiene leggendo per colonne questo scritto, sia se si prende in considerazione la parola "troppo", sia se si prende in considerazione la parola "muscolo", sempre in conseguenza della diversa interpretazione della terza lettera del secondo rigo di questo scritto, dato che mangiare la (molta) muscolatura di bue equivale a mangiare troppo. Perciò tutte le osservazioni fatte in questa disamina, per aver ritenuto la terza lettera del secondo rigo essere la lettera greco-arcaica "Ϙ", si possono ritenere valide anche quando a questa lettera si sostituisce la lettera greca "P".
  Lo scritto del mosaico della basilica di Mesaplik del primo quarto del IV secolo, nel significato a cui si è pervenuti in questa trattazione, acquista un particolare pregio, in considerazione del fatto che questo ritrovamento ha anticipato di oltre undici secoli la storia della letteratura albanese, non conoscendosi prima del ritrovamento di questo mosaico nessun documento scritto della lingua albanese anteriore alla "Formula e Pagëzimit" di Pal Engjëlli[6] del 1462, come risulta dal seguente passo tratto dalla "Storia della letteratura albanese" di Koço Bihiku, parte I: "La letteratura antica", Casa Editrice «8 NËNTORI» TIRANA, 1981: ««Il più antico documento finora conosciuto della lingua albanese è «Formula e Pagëzimit» (La Formula di Battesimo) che risale al 1462; è stata scritta dall’arcivescovo Pal Engjëlli, stretto collaboratore di Gjergj Kastriota Skanderbeg, l’eroe nazionale degli albanesi, che condusse la loro guerra contro gli invasori ottomani nel XV sec. Questa «Formula» era destinata al battesimo dei bambini ad opera delle stesse famiglie, qualora non fosse possibile portarli in chiesa o quando il sacerdote non era in grado di recarsi da loro. Tranne questa «Formula», non si conosce nessun altro documento scritto della lingua albanese né in questo secolo, né prima di questo. Il fatto che non siamo in grado di spingerci più lontano per seguire la storia della letteratura albanese, non significa affatto che prima di questo tempo non ci siano state opere scritte in albanese. Esistono testimonianze storiche che dicono chiaramente avere la lingua albanese scritta tradizioni più lontane nel tempo.»»[7]
  Così si esprimeva Friedrich Engels sul cristianesimo di quest’epoca a cavallo tra il III e IV secolo a conclusione dell’Introduzione a "Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850" di Karl Marx, edizione 1895, in cui nelle prime ore del 24 luglio Sigmund Freud, invece, ebbe il famoso "sogno dell’iniezione di Irma", che spalancò le porte alla psicologia dell’inconscio, meglio denominata psicanalisi:
«Sono passati quasi esattamente 1600 anni da quando nell’Impero romano agiva ugualmente un pericoloso partito sovversivo. Esso minava la religione e tutte le basi dello Stato; esso negava per l’appunto che il volere dell’imperatore fosse la legge suprema; esso era senza patria, internazionale; si estendeva in tutte le terre dell’impero, dalla Gallia all’Asia, e al di là dei confini dell’impero. Esso aveva fatto per un lungo periodo di tempo un lavoro segreto sotterraneo, di disgregazione; ma da parecchio tempo già si sentiva abbastanza forte per mostrarsi alla luce del sole. Questo partito sovversivo, conosciuto col nome di cristianesimo, era anche fortemente rappresentato nell’esercito: intere legioni erano cristiane. Quando erano comandate a prestar servizio d’onore alle cerimonie dei sacrifici della chiesa di Stato pagana, i soldati sovversivi spingevano la temerità sino a porre sui loro elmi in segno di protesta dei distintivi particolari: delle croci. Persino le abituali vessazioni di caserma dei superiori erano vane. L’imperatore Diocleziano non poté più assistere passivamente al modo come l’ordine, l’obbedienza e la disciplina venivano minate nel suo esercito. Egli prese misure energiche, mentre vi era ancora tempo. Promulgò una legge contro i socialisti, volevo dire contro i cristiani. Le riunioni dei sovversivi vennero proibite; i loro locali vennero chiusi o addirittura demoliti; i distintivi cristiani, croci ecc., vennero proibiti come i fazzoletti rossi in Sassonia. I cristiani vennero dichiarati incapaci a coprire cariche di Stato; essi non potevano nemmeno essere caporali. Siccome allora non si disponeva ancora di giudici così ben addestrati alla "considerazione delle persone", come li prevede il disegno di legge del signor von Köller, si proibì puramente e semplicemente ai cristiani di domandar giustizia davanti ai tribunali. Anche questa legge eccezionale rimase senza effetto. I cristiani la strapparono dai muri per ischerno; anzi, si dice che a Nicomedia essi avrebbero incendiato il palazzo in cui si trovava l’imperatore. Allora questi si vendicò con la grande persecuzione dei cristiani dell’anno 303 dell’era nostra. Essa fu l’ultima del genere. E fu così efficace che diciassette anni dopo l’esercito era composto in gran maggioranza di cristiani, e che il successivo autocrate di tutto l’Impero romano, Costantino, dai preti detto il Grande, proclamò il cristianesimo religione dello Stato
  Nel corso della trattazione è stata usata, al posto della lettera "alfa: A", la "piccola jus: Ѧ", che rappresenta una vocale nasale di fonema IPA [ɛ̃] dello slavo comune, nelle prime attestazioni della fine del IX inizio X sec. dell’alfabeto cirillico e glagolitico, in quanto graficamente assomigliante a quella del mosaico, antecedente di circa sei secoli.
  Se dalle considerazioni svolte la matrice rettangolare che contiene lo scritto del mosaico della basilica di Mesaplik si può considerare un "rettangolo magico" per il suo significato ambivalente se non, addirittura, polivalente, altrettanto si può dire del frammento rettangolare del mosaico, che la contiene, per i medesimi connotati.
  In conclusione, come Werner Haisenberg è rimasto affascinato leggendo appassionatamente "Il Timeo" di Platone per la profondità e l’originalità del pensiero greco classico in esso infuso, allo stesso modo io sono rimasto affascinato nell’ammirare il mosaico della basilica di Mesaplik, mentre levavo per la prima volta il velo che lo ricopriva.
_______________________________ing. Domenico Nociti

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  [1]^a^b Antecedente al congresso linguistico di "Monastir" (Bitola, Repubblica di Macedonia) del 1908, dal quale si pervenne all’alfabeto moderno albanese basandolo sull’alfabeto latino, non compariva nella scrittura albanese la lettera alfabetica "q" dell’attuale alfabeto albanese, al cui fonema si era provveduto o col grafema "ch" o col grafema "c", per cui le parole "aq" e "keq" erano scritte "ach" e "kech" oppure "ac" e "kec", come si può constatare dalle sei immagini riportate a fianco, riguardanti il secondo caso, più attinente alla presente trattazione, delle due opere seguenti: Fialuur i voghel sccᴕp e ltinisct, mleξun prei P. Jak Junkut t' Scocniis Jeεu, n' Sckoder t' Sccᴕpniis 1895, e Vocabolario Italiano - Epirotico di padre Francesco Rossi, stampato in Roma nell’anno 1866 dalla S.C. de Propaganda Fide, le prime delle quali sono i frontespizi, mentre le altre due al di sotto di ciascun frontespizio sono, rispettivamente, le pagg. 863, 430 e 1, 56 delle opere citate. A tal proposito al punto 2 delle "Avvertenze intorno alla pronunzia" l’autore della prima delle due precedenti opere fa presente che: "Il c e il g in albanese hanno sempre il suono palatino come il c e il g italiano in cielo, cioè, genio, giorno, giustizia; e quindi ca, co, cu, ga, go, gu, si pronunciano come si pronuncia in italiano cià, ciò, ciù, già, giò, giù. È pur da notare che tanto il c quanto il g in albanese hanno due suoni, uno più fievole e schiacciato come in cen, cieλ, garpen, pergeg, l’altro più forte, e ciò avviene specialmente nelle parole turche, o di origine turca, come ciber, gevap".
  [2]^Come si può constatare dalla seconda dalle due immagini sottostanti, la prima delle quali è la riproduzione della copertina del: FJALOR di Emanuele Giordano, Edito da "il Coscile" in Castrovillari (CS) nell’anno 2000, che riproduce la pag. 186 di quest’opera, la traduzione dell’avverbio arbëresh "keq", oltre ad avere il significato di "male" che oggigiorno viene dato in Albania, ha anche il significato di "troppo", che, evidentemente, aveva all’epoca delle migrazioni albanesi in Italia nel XV e XVI.
  [3]^ La lettera Ϙ faceva parte anche dell’alfabeto arcaico latino di derivazione greco-etrusca in caratteri simili a quelli dell’alfabeto greco (arcaico), come si può constatare dalle due immagini a fianco delle quattro facce laterali del Lapis niger, cippo mutilo a forma piramidale, rinvenuto il 10/1/1899 dall’arch. Giacomo Boni (Venezia, 25/4/1859 – Roma, 19/7/1925) nell’angolo nord-ovest del Foro Romano e contenente la più antica e famosa iscrizione (bustrofedica) della lingua latina, databile tra il 575 ed il 550 a.C. Si riporta di seguito la relativa trascrizione: I) ϘΥΟΙΗΟI----- / II) ----SΑΚΡΟSΕS / III) EDSOPM----- / IV) -------IASIAS / V) PECEIIC------ / VI) --------EYAM / VII) ϘΥΟS:PI------ / VIII) ----M:KALATO / IX) PEM:HAΠ---- / X) OIOD:IOYXMEN / XI) TA:KAΠIA:DOTAY / XII) M:ITE:PIA---- / XIII) ----M:ϘΥΟΙHA / XIV) YELOD:NEϘY-- / XV) --ODIOYESTOD / XVI) LOIYϘΥIΟD---, da cui si può constatare che questa lettera compare nei righi I, VII, XIII, XIV e XVI.
  [4]^ Brigi (in greco Βρύγοι o Βρίγες) è il nome storico dato a un popolo degli antichi Balcani. Sono generalmente considerati come relazionati ai frigi, i quali durante l’antichità classica vivevano nell’Anatolia occidentale. Entrambi i nomi, brigi e frigi, sono considerati delle varianti di una radice comune. L’etnonimo "Brigi", in greco "Βρίγες" (Briges), corrisponde sostanzialmente all’esoetnonimo "Frigi", con cui questo popolo era identificato dai Greci, dai quali era anche ritenuto affine ai Macedoni ed ai Traci. Basandosi sull’evidenza archeologica, alcuni studiosi (Nicholas Hammond, Eugene N. Borza ed altri) ipotizzano che i brigi/frigi fossero membri della cultura lusaziana che migrarono nei Balcani meridionali durante la tarda età del bronzo (Eugene N. Borza, All’ombra dell’Olimpo: la comparsa macedone, Princeton, New Jersey: Princeton University Press, 1990, p. 65, e Rodney Stuart Young, Ellen L. Kohler, Gilbert Kenneth, Gli scavi di Gordio 1950-1973: Final Reports, Vol. 4, p. 53) [ved. immagine sovrastante: Mappa dell’Epiro e dintorni nell’antichità classica (situazione intorno al IV sec. a.C.) (Autore: Megistias, 16-2-2010)].
  Le più antiche menzioni dei brigi sono contenute negli scritti di Erodoto (Histories, VII, 73), il quale descrive la relazione assunta con i frigi dicendo che, secondo i macedoni, i brigi "mutarono il loro nome" in frigi dopo essere emigrati in Anatolia, un movimento che si è pensato fosse accaduto tra il 1200 e l’800 a.C. forse a causa del collasso dell’età del bronzo, particolarmente con la caduta dell’impero ittita e il vuoto di potere che si venne a creare (Eugene N. Borza, op. cit., p. 65). Nei Balcani, i brigi occupavano l’Albania centrale e l’Epiro settentrionale (Iorwerth Eiddon Stephen Edwards, The Cambridge Ancient History, Part 2, Il Medio Oriente e la regione egea, 1380-1000 a.C. ca., Cambridge, United Kingdom, Cambridge University Press, 1973), come pure la Macedonia, principalmente a ovest del fiume Assio, ma anche la Migdonia, conquistata dal regno di Macedonia all’inizio del V secolo a.C. (Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 99); sembra che i brigi abbiano vissuto pacificamente con i vicini macedoni (Eugene N. Borza, op. cit., p. 65), tuttavia, Eugammone nella sua Telegonia, descrivendo le tradizioni delle epoche più antiche, menziona il fatto che Odisseo^ comandava i tesprozi epiroti contro i brigi (Iorwerth Eiddon Stephen Edwards, op. cit.). Piccoli gruppi di brigi, dopo la migrazione in Anatolia e l’espansione del regno di Macedonia, si trovavano ancora nella Pelagonia settentrionale ed intorno a Epidamno. "La presenza di brigi a Epidamno nel resoconto di Appiano sembra essere confermata da altre fonti, incluso il Viaggio costiero attribuito a Scimno di Chio e la Geografia di Strabone" (J. J. Wilkes, Gli illiri, Blackwell Publishing, 1992, p. 111). "Alcuni dei brigi vennero ad insediarsi nell’Illirico, dove dimoravano apparentemente a nord di Epidamno. Strabone assegna loro la città di Cydriae" [William Smith, Dizionario geografico greco-romano, 1854 (Original from Harvard University), p. 452].
  Erodoto (Histories, VI, 45) menziona anche che nel 492 a.C., alcuni brigoi o brigi traci (Greek: Βρύγοι Θρήικες) piombarono sopra l’accampamento persiano di notte, ferendo lo stesso Mardonio, sebbene egli durante quella campagna militare finisse per soggiogarli. Questi brygoi vennero più tardi menzionati nelle Vite Parallele di Plutarco, nella battaglia di Filippi, come aiutanti nel campo di Bruto [Plutarco, Vite Parallele (Bruto)]. Tuttavia, studiosi moderni affermano che un collegamento storico tra loro e gli originari brigi non può essere stabilito, dato che "nessun documento successivo della loro presenza nell’area sopravvisse, né può essere stabilito alcun collegamento con i brigi della Tracia" (J. J. Wilkes, op. cit., p. 111).
  Non vi è nessuna derivazione certa per il nome e l’origine tribale dei brigi. Nel 1844 Hermann Müller ipotizzò che il nome possa essere correlato alla stessa radice indoeuropea del tedesco Berg (montagna) e dello slavo breg (collina, pendio, montagna) (Hermann Müller, Das nordische Griechenthum und die urgeschichtliche Bedeutung des Nordwestlichen Europas, p. 228), vale a dire *bʰerǵʰ (IE). Stessa correlazione si riscontra con la radice indoeuropea dell’ arbëresh (italo-albanese) brinjë (erta, costa di monte, pendio, scarpata, declivio, precipizio) [Emanuele Giordano, FJALOR, "il Coscile", Castrovillari (CS), 2000, p. 39]. Sarebbe allora imparentato con i nomi tribali europei occidentali, come i briganti celtici e i burgundi germanici (Kluge, Etymologisches Wörterbuch, Berlin: de Gruyter 1995, v. Berg), e semanticamente motivato per qualche aspetto dei significati della parola 'alto, elevato, nobile, illustre' (Julius Pokorny, Indogermanisches Etymologisches Woerterbuch, pp. 140-141, University of Leiden).
  Infine, si può riscontrare dalle due immagini sottostanti, quanto segue: "Brygias (Brygium, Brucida), capitale dei Brigi, Illiria, Est di Lychnitis palus, sulla Via Egnatia^ (Ignazia), tra Lychnidus (13) e Scirtiana (4). Presba." e "Brygi (Brygii, Phrygi), una tribù di Dassaretae, Illyria, al confine della Macedonia." (William Hazlitt, Il dizionario geografico classico: un dizionario della geografia antica, sacra e profana, Whittaker, 1851, p. 81). [Fonte "WIKIPEDIA: Brigi", tranne le parti riguardanti brinjë ed Il dizionario geografico classico di William Hazlitt].
  [5]^c^d^e Come si può constatare dall’immagine sottostante, tratta dal FJALOR di Emanuele Giordano, Edito da "il Coscile" in Castrovillari (CS) nell’anno 2000, la cui riproduzione della copertina è riportata nella nota 2 e che riproduce la pag. 152 di quest’opera, la traduzione della parola arbëresh "hap" o "hapënj", in caratteri greci "ἁπ", oltre ad avere il significato di "aprire", significa anche "spalancare", "divulgare", "spiegare", "svelare", nonché "diffondere".
  [6]^ Pal Engjëlli, in latino Paulus Angelus, (albanese, 1416 - 1470) è stato arcivescovo cattolico di Durazzo e cardinale di Albania, amico, collaboratore e stretto consigliere di Skanderbeg, spesso inviato all’estero in cerca di aiuto nella guerra contro l’Impero Ottomano. La "Formula di Battesimo" in dialetto ghego (ved. immagine a destra, fonte Wikipedia) è contenuta in una lettera pastorale, datata 8/11/1462, scritta in latino da Engjëlli dopo una sua visita alla chiesa di Santa Trinità in Mat in Albania. Questa Formula, pensata per essere usata dai sacerdoti albanesi per rendere il rituale comprensibile alla gente ignorante del latino, è stata approvata da un sinodo in questa città. La lettera che la contiene, conservata nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, è stata scoperta nel 1915 dallo studioso rumeno Nicolae Iorga. Questo il testo originale della Formula: «Unte' paghesont premenit Atit et‘ birit et spertit senit»; segue lo stesso testo in albanese (moderno): Unë të pagëzoj në emër të Atit, të Birit dhe të Shpirtit të Shenjtë; in inglese: I baptize thee in the name of the Father and the Son and the Holy Spirit; in italiano: Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
  [7]^ La rivista albanese "Klan" del 13 ottobre 2002 e la rivista "Ekskluzive" dell’ottobre dello stesso anno di Pristina hanno dato notizia che il dott. Musa Ahmeti, albanese del Kosovo, ha scoperto in una biblioteca dell’Archivio Vaticano un’opera manoscritta autografa su pergamena dell’anno 1210 di 208 fogli formato 28 x 39,5 cm scritti sul recto di 43 righe ciascuno, rilegata con copertina in legno massiccio formato 29,5 x 42, perfettamente conservata, il cui aurore è un certo Theodor Shkodrani. Questo autore è diverso da un altro scrittore: Theodore Scutariotes. E’ scritta nel dialetto del nord dell’Albania (ghego) in lettere alfabetiche latine con l’aggiunta di ξξ (/th/), ξ (/dh/) e (/υ/), i cui fonemi, indicati tra parentisi, mancano in quello latino, e si parla di teologia nel I capitolo (1r - 97r), filosofia nel II (98r - 146r) e storia nel III (147r - 208r), nel quale ultimo capitolo sono citate altre opere consultate dall’autore più di una volta, riguardanti cronache albanesi di diverse città. Si conclude con la seguente frase, seguita dal nome dell’autore:
  "Mee nihemmen zze dessirnnee e phorte t’ Lummnummitt ZOT e mbaronjj n’Vitte MCCX dittn ee IX t’ Mmarxxitee.
  ξξEODOR SSCODRAANNITTEE."
  In albanese moderno si dice: Me ndihmën dhe dëshirën e fortë të Lumturit ZOT e mbarova (përfundova) në Vitin 1210, ditën e 9 të Marsit. Theodor Scodranite.
  In italiano significa: Con l’aiuto ed il forte desiderio del Beatissimo Dio ho terminato nell’Anno 1210, il giorno 9 Marzo. Theodor Shkodrani.
  In inglese si traduce: With the help and the strong desire of Very Blessed GOD i finished it in Year 1210, the 9th day of March. Theodor Shkodrani.
  Sembra, inoltre, del XVI secolo un brano scritto in lingua albanese da un anonimo scrittore, contenuto all’interno di un Codice greco del XIV secolo, rinvenuto nella Biblioteca Ambrosiana di Milano da un Arbëresh che era emigrato in Italia nel XV secolo. Questo documento è scritto con l’alfabeto greco in dialetto tosco del sud dell’Albania ed è chiamato, in albanese: "Perikopeja e Ungjillit të Pashkëve apo e Ungjillit të Shën Mateut" (italiano: Il brano del Vangelo di Pasqua o del Vangelo di San Matteo).
  Le seguenti opere si riferiscono alla lingua albanese come identità linguistica distinta da quella degli slavi, dei greci o dei latini.
  1. In un documento dell’Archivio di Dubrovnik del 14 luglio 1284 è scritto: "Et audiui unam uocem clamantem in monte in lingua albanesesca", che significa: Ho sentito una voce in montagna gridare in lingua albanese.
  2. Autore anonimo, probabilmente un sacerdote dell’Ordine dei Domenicani, che nel 1308, durante un viaggio attraverso i Balcani, nel descrivere l’Albania e gli albanesi, tra l’altro scrive: "Habent enim Albani prefati linguam distanctam a latinis, grecis et slavis ita quod in nullo se inteligunt *** aliis nationibus", che significa: Qui i suddetti Albanesi hanno un linguaggio diverso da quello dei latini, greci e slavi, in modo da non potersi comprendere con le altre nazioni.
***cum
  3. Guillaume Adam (in latino Guillelmus Adae), missionario pontificio in Persia (1314 - 1317), vescovo di Smirne (1318), arcivescovo di Sultanieh in Iran (1322), metropolita di Antiochia (1324) e arcivescovo di Antivari (Bar, Tivar) in Montenegro dal 1324 fino al 1341, ad Avignone, tra il 1329 e il 1337, redasse, forse per ordine di Papa Giovanni XXII, un piano di riconquista della Terrasanta per Filippo VI di Valois, re di Francia, col titolo: "Directorium ad Passagium Faciendum per Philippum regem Franciae in terram sanctam", che fornisce informazioni sull’Albania e gli albanesi ed in cui si trova la (famosa) frase: "Anche se gli albanesi hanno una lingua diversa dal latino, loro usano nei loro libri le lettere alfabetiche latine".
  Altre opere albanesi, successive alla "Formula di Battesimo", sono il Dizionario di Arnold Ritter von Harff (Fjalori i Arnold von Harfit) del 1496, scritto per necessità personale durante una permanenza in Albania di passaggio per la Terrasanta e consistente in 26 parole, 8 frasi ed i numeri fino a 1000 in albanese con a fianco la corrispondente traduzione tedesca, ed il Messale (Meshari), il primo libro in albanese prima della recente scoperta, scritto da Gjon Buzuku tra il 20/3/1554 ed il 5/1/1555 nel dialetto ghego in caratteri alfabetici latini con alcune lettere slave più adatte per le vocali, a cui si aggiungono quelle successive del XVII sec., XVIII sec. ed oltre.

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7 commenti:

  1. a pak ke taç a shum vete per lum dice popolo albanese

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  2. "Ha pak ke taçe, ha shum vete për lum", per i lettori italiani, si traduce: "Mangi poco hai bullette (alle suole delle scarpe per camminare), mangi molto vai per (o via) fiume (cioè, a nuoto)".

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  3. Basandomi sempre sul modo in cui lei ha interpretato questo scritto, e cioè che a tutt'oggi la lettera Q spesso si pronuncia K (kisha -qisha, Hikmet -Hiqmet), la lettera Ç si pronuncia Q (keq-keç), o la parentela tra K e Q (biçak-biçeqe ), e che la pronuncia di una lettera dipende dalla posizione in cui si trova, questa scritta ha dei significati ben precisi che riportano alla parlata dialettale di oggi, come modi di dire di origine contadine.


    Leggendo dott.ing. Domenico Nociti: Il mosaico magico della basilica paleocristiana illiro-albanese di “Mesapliku”

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  4. donika, nel commento che precede del 24 giugno 2010, ore 13.09, sostiene che si è basata "sempre sul modo in cui" il sottoscritto "ha interpretato questo scritto, e cioè che a tutt'oggi la lettera Q spesso si pronuncia K (kisha -qisha, Hikmet -Hiqmet), la lettera Ç si pronuncia Q (keq-keç), o la parentela tra K e Q (biçak-biçeqe ), e che la pronuncia di una lettera dipende dalla posizione in cui si trova, ...". Proprio per non polemizzare, il sottoscritto rimanda il lettore a leggere quanto in questo post è stato scritto riguardo a quanto precede e si accorgerà che non è vera questa affermazione di donika.
    ing. Domenico Nociti

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  5. "῾ѦΠ KѦ ῾Ѧ ϘEϚ", in caratteri latini: "HAP KA HA KEQ", dalla lingua arbëresh si può anche letteralmente tradurre, tenendo conto che "hap" significa anche "passo" e "ka" anche "ha, c’ha, tiene (possiede)": "C'ha (tiene) passo, mangia troppo", sia in senso fisico propriamente detto, che del sapere, ivi compreso quello trascendente. Sotto l’aspetto fisico corrisponde al noto proverbio dialettale del cosentino, secondo cui: "A gaddina ca camina, si ricoglia cca vozza qina.", dove la consonante q di "qina" ha lo stesso fonema della medesima consonante della lingua arbëresh o della lingua albanese, cioè come il fonema della coppia di consonanti ch della parola italiana "chiave" oppure "chiesa", mentre lo stesso proverbio in italiano diventa: "La gallina che cammina, ritorna col gozzo pieno.".
    ing. Domenico Nociti

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  6. Quando una parola greca con la ς, come κατως, è stata assunta nella lingua arbëresh, il fonema e grafema /ς/ ha assunto il fonema ed il grafema /q/, che prima del congresso di Bitola (Monastir) del 1908 aveva il grafema /c/, diventando così la suddetta parola prima katoc e, successivamente, katoq (katoqi), che significa basso, deposito, granaio.
                                                             ing. Domenico Nociti

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  (possibilmente ad hoc)